martedì 18 dicembre 2012

Alcuni anni orsono, parlando con un amico pittore e anche un pò filosofo , mi disse una frase che non riesco a dimenticare perchè oltre ad essere vera mi ha anche molto divertita. Non so se questa detta frase fosse sua o di qualcun altro.


Non dobbiamo sentirci tranquilli perchè sappiamo dove si trovano i cattivi.
I cattivi possono essere dentro di noi travestiti da buoni.


Mi ricordo di aver riso a lungo immaginandomi dei diavoletti ghignanti sotto le mascherine, vestiti come angioletti, con alucce e aureola.

Io sono del parere che la Bontà sia molto relativa.

°°°°°
G. Torboli
2012

lunedì 17 dicembre 2012

Essere


La piu`grande avventura e´di scoprire dentro di noi
sempre cose nuove.
Molte si contraddicono, altre ci fanno piacere mentre altre ancora
non ci soddisfano.
Fare la conoscenza di cio`che siamo e`l' unico modo
per vivere in armonia la propria vita.

°°°°°

G.Torboli
2012

giovedì 13 dicembre 2012

Pensiero



Scorre il tempo,
scorre la vita,
scorre il fiume,

osserva e lascia scorrere,
l'albero ti vede.

°°°
G.Torboli
2012

lunedì 10 dicembre 2012

una frase

"Non e´ mollare che fa male
ma essere aggrappati."

Ecco una frase non nuova,
ma utile per riflettere e per scoprire
alcune possibilita´di sentirci meglio.

Buon lavoro.......

G.T.


convivenza

L' Amore prevale dove ognuno
ha il suo equilibrio ed il suo spazio.

G.T. 2012

mercoledì 28 novembre 2012

Il capo


Amara esperienza al lavoro


È molto difficile da sopportare
un Capo che non sa cosa fare.
L´uomo frustrato
é uno Capo malandato,
La sua conoscenza
non é competenza,
cosí la sua voce non giunge al bersaglio
ma resta nell´aria e sembra un abbaglio.
Il Capo poverino, si sveglia al mattino
si crede delfino e fa il sopraffino.
Finché sta allo specchio sostiene la parte
ma poi nel lavoro, lo scoglionano in coro.



Graziella Torboli
2001

Der Sturm


Der Sturm


Der Sturm,
hebt, durchdringt,
schüttelt, lüftet,
reißt, vernichtet.

Der Sturm,
unsichtbare Kraft,
unhaltbare Kraft,
nichts schonend.

Gegen der Sturm gehen,
gegen das Schicksal gehen,
vorgebeugte Gestalten
mit geschlossene Augen.


Graziella Torboli, 1992

martedì 20 novembre 2012

Sensazioni

La tenerezza

La tenerezza e´come il profumo di un prato in fiore.
E´un profumo indefinibile, di tanti fiori ed erbe.
Ti avvolge, ti inebria, ti incanta,
e calde lacrime scorrono sul tuo viso.

°°°°°
Graziella Torboli
2012

lunedì 19 novembre 2012

Compleanno di Verena


A Verena


Una tenera piantina
ben curiosa e birichina
prese un di´la decisione
di far ombra al solleone.

Se ne ando´dal caldo nido
per veder dov'era il sole
ma le molte vie d'intorno
le confusero lo sguardo.

Prese a crescer la piantina
ben curiosa e birichina
fra tristezza ed allegria
ma cercava la sua via.

Un bel di´guardando in alto
vide un fil di luce d´oro
prese a ridere il suo cuore
e non smise di sperare.

E verra´per la piantina
or piu´grande e piu´carina
anche il giorno per amare
ma non prima di.. sbocciare.


Con tanto tanto affetto
Mamma.
19 nov. 1999


Graziella Torboli

sabato 17 novembre 2012

zum Licht


Zum Licht

Laß Dein Leben sich abrunden,
sei ihm nicht im Wege.

Es ist zu Dir gekommen,
halte es lieb,
genieße es,
liebe es.

Laß Dich nicht entmutigen
wenn das Böse kommt.

Hebe Dein Kopf,
sehe zum Licht.

Das Licht wird dir leuchten.

°°°°°

Graziella Torboli
1987

La vita chiese...






La vita chiese...


Un giorno la Vita mi disse: vieni?
io dissi no, e sposai mio marito.
Piú tardi mi disse ancora: vieni ?
io dissi si, e lasciai mio marito.


°°°°°

Graziella Torboli 
1987

venerdì 9 novembre 2012

9 novembre 2012

Oggi e`venerdi, 9 novembre 2012.
Per me e´un grande anniversario perche´il 9 novembre 2009 ho traslocato e sono tornata definitivamente in Italia dopo ben 44 anni di vita in Germania.
Non e´stata una decisione facile ma era un mio sogno. Tornare in Italia.
Io ho sempre creduto ai sogni. Si possono avverare.
Sono molto contenta d'aver dato una svolta alla mia vita.


Graziella Torboli

giovedì 8 novembre 2012

Al Bar


Al Bar


E`una mattina fredda e piovigginosa di novembre.
Sono uscita con l’ombrello per fare delle commissioni.
Dopo essere entrata ed uscita da un paio di negozi, ho avuto voglia di un cappuccino caldo.
Cosí sono entrata in un Bar. Era un Bar piccolo e intimo. La barista era una giovane donna e stava discutendo animatamente con un amico sulle funzioni del suo telefonino.
Mi saluto´gentilmente ed io ordinai il mio cappuccino.
Mentre attendevo al banco  osservai l’ambiente.
C’erano pochi tavoli ed a ogni tavolo sedeva un cliente. Li contai. Erano otto. Tutti otto sedevano soli e armeggiavano con il loro telefonino.
Testa bassa e silenzio. Tutto era silenzio. Nessuno parlava.  Il conoscente della barista  era andato via. Bevvi il mio cappuccino e continuai a guardarmi intorno pensando - Dove sono finiti  i bar rumorosi e allegri , il punto di ritrovo con amici che ridevano e si raccontavano i pettegolezzi del paese? Non parliamo poi delle animate discussioni sportive. Era un vero spasso stare ad ascoltarle.-
Tutto era silenzio. Rimasi allibita ad osservare. Nessuno alzava la testa.
Sobbalzai ad un tratto sentendo la voce della barista che guardando verso la strada gridava:
-Oh! Arriva il mio bambino, il mio amore! -
Guardai anch’io in quella direzione e contemporaneamente sentii l’abbaiare di un cane. Era un cane grande e nero.
La barista continuava a gesticolare ed a gridare e ridere verso il cane che tutto agitato guardava la barista  attraverso la finestra del Bar. Poi, lei disse, riferendosi a noi, suoi clienti:- Lui abbaia perche`vuole che io esca, ma ora non posso.-
Il cane continuava ad abbaiare. Nel bar persisteva il silenzio.
Io finii di bere il mio cappuccino e me ne andai pensando con tristezza che il mondo stava veramente cambiando....aprii il mio ombrello e camminai verso casa ascoltando il  ticchettio  della pioggia.



°°°°°°
Graziella Torboli
 2012

sabato 3 novembre 2012

piccola favola...


Il bruco spensierato    

In mezzo a un grande bosco , in mezzo a fresche verzure e fiori, viveva un bruco nero.
Era grasso , peloso ed aveva sempre fame.
Il bosco era la sua casa . Tutti i vicini lo conoscevano ma non era molto benvoluto perché era piú svelto degli altri e si mangiava sempre le foglie piú fresche.
Era un bruco allegro e bonaccione e non capiva il perché gli altri ce l´avessero con lui.
Tutti lo conoscevano, lo salutavano peró non aveva amici. Fu cosí che il bruco nero si abituó a starsene da solo ed a sognare.
Dopo i suoi succulenti pranzetti, soleva mettersi sotto una grande foglia verde per riposare e per osservare la vita intorno a lui.
Piú di tutto lo incantava il canto degli uccelli, il loro svolazzare, la loro libertá.
Anche se gli uccelli erano i suoi piú grandi nemici, il bruco nero sognava ad occhi aperti di essere come loro, di volare nel cielo azzurro e di cantare a squarciagola.
Sotto la grande foglia verde, sognava il bruco nero e non vedeva nemmeno le formiche, che passando indaffarate vicino a lui, scrollavano il capo e lo chiamavano fannullone.
Dopo tanto sognare gli tornava la fame, cosí il bruco ricominciava le sue scorpacciate di verdi germogli e si godeva la vita.
Poi guardava di nuovo gli uccelli e pensava:“cosa darei per volare anch´io.- e guardava tutte le sue gambette pensando che le avrebbe date volentieri in cambio di due ali.
Passó il tempo. Un bel giorno il bruco nero si accorse di non avere piú il solito appetito.
I verdi germogli non lo attiravano piú di tanto, cercó un pó qua ed un pó la, ma
niente piú gli solletticava l´appetito. Il bruco nero, allegro e bonaccione divenne triste.
Seduto sotto la foglia verde, invece di sognare incominció a pensare. : Forse dovró cambiare bosco ? Forse troveró lá qualche cosa che mi piacerá?
Fu cosí che il bruco nero si mise in cammino alla ricerca di cibi appetitosi.
Dopo giorni e giorni di cammino, il bruco nero arrivó in una radura, ricca di fiori e piante mai viste prima. Felice ed affamato il bruco nero si tuffó fra le ricche verzure e prese a cercare cosa le piacesse. Da lí a un pó, intorno a lui si sollevarono voci di protesta e minacce.
Chi sei? Che cosa vuoi? Vattene via, vattene a casa tua!
Gli abitanti del bosco si avvicinarono e minacciandolo con dei bastoni  lo fecero scappare a gambe levate.
Il bruco nero si diede a correre con la forza di tutte le sue gambe e non si fermó finché
non cadde spossato e senza fiato vicino ad un allegro ruscello che scendeva fresco fresco dalla montagna vicina.
Il ruscello offrí da bere al bruco nero che subito si sentí meglio e gli ritornó la forza per guardarsi intorno.
Una rana, che seduta fra l'erba stava facendo una serenata alla pioggia, vedendo il bruco nero, interruppe di colpo il suo canto per chiedere curiosa:  Chi sei? Da dove vieno? Mi sembri un pó malconcio. Che cosa ti é successo?
Il bruco nero, dopo aver preso fiato raccontó alla rana la sua storia e le disse che da tanto non mangiava e che si sentiva molto debole.
La rana, saltellando e quaccando pensava intanto a come aiutare il suo nuovo amico.
Dopo un pó disse: Perché non provi a scavare nella terra come i lombrichi ? Forse troverai la sotto qualcosa che ti fará tornare l 'appetito.
Il bruco nero pensó un attimo e poi prese a scavare di gran foga. Dopo aver scavato per un tempo che gli sembrava lunghissimo, il bruco si trovó in una lunga galleria scura scura dove a mala pena poteva vedere qualcosa. Provó a mangiare un pó di terra umida e nonostante avesse un sapore che non conosceva le piaque, e ne mangió ancora finché fu sazio.
Giú, sotto terra scoprí un mondo nuovo e fece conoscenza con animali mai visti prima.
Ascoltó tante storie e anche lui ne raccontó alcune.
Stava bene , laggiú al riparo dagli uccelli, peró rimpiangeva il loro canto.
Passó altro tempo. Il bruco nero si nutriva di terra e radici, aveva riaquistato se non del tutto , una parte del suo appetito e si sentiva a casa sua.
Passava ore ad aiutare o a chiaccherare con la sua nuova amica, la talpa.
Oh, la sua amica talpa sapeva un sacco di cose, sapeva quello che succedeva sopra e sotto la terra.“ Peccato che sia cieca“ pensava il bruco, e si meravigliava
che nonostante non vedesse, conoscesse si tante cose.
Un giorno, incuriosito piú del solito, il bruco nero chiese alla sua amica talpa,
come lei avesse imparato  tanto  se non poteva vedere nulla.
Lei rispose sorridendo: Io ascolto.
Il bruco nero pensó a lungo. Lui che si godeva tanto a guardarsi intorno, non riusciva a capire .
Un giorno la talpa disse: Mio caro bruco nero, tu giri, giri, cerchi sotto e sopra la terra cibi appetitosi per riempirti la pancia e per farti sognare, é chiaro che non ti basta .
Mangiare non ti basta piú, il tuo appetito non riesce piú a soddisfarti, a sostenerti.
Tu devi imparare ad ascoltare te e non solo gli uccelli.
Il bruco nero rimase interdetto dalla sorpresa, non riusciva a capire.
Ascoltare me? pensava, „ Perché?“.
La talpa non disse altro e rimase in silenzio ad ascoltare il sottile ma affannato respiro del bruco nero.
Parlo´il bruco nero e chiese alla talpa“ che cosa devo fare?“
La talpa rispose: „ Se tu non sai che cosa fare e dove andare, devi dormire, dormire a lungo. Arrotolati con tutte le tue gambe, abbracciati e dormi. Quando ti sveglierai non avrai piú bisogno di sognare bensí di vivere la tua vita.
Il bruco nero seguí il consiglio della Talpa, si arrotoló, si abbracció, chiuse gli occhi e sentí un gran calore intorno a sé.
Dormí tanti giorni e tante notti mentre la talpa continuava a scavare, scavare e ad ascoltare.
Un bel mattino il bruco nero si sveglió di sopprassalto. Si sentiva intorpidito e affamato, ma tanto affamato che avrebbe mangiato ogni cosa.
Provó a srotolarsi, a sgranchirsi la gambe, ma c´era qualcosa che lo impediva.
Tutto era buio intorno a lui, e la talpa chissá dov´era.
Il bruco nero prese e trascinarsi, a spingersi, a provare con tutte le sue forze per uscire
alla luce e vedere che cosa gli impediva di muovere le gambe.
Finalmente vide un filo di luce, prese coraggio e si spinse sempre piú su con le ultime forze che li rimanevano e si diceva „ Voglio vedere che cosa mi tiene stretto, che cosa non mi fa camminare.“
Ecco la luce! Vedo  l'erba ! Evviva ! A me, dolci germogli !
Il bruco nero uscí dal buco sotto la terra e fece per muovere le gambe e correre quando una folata di vento primaverile lo sollevó in alto e gli spiegó le sue variopinte ali di farfalla.
Il bruco nero diventato Farfalla gridó: Volo! Volo!  e si tuffó felice in un grande  campo di fiori gialli.


°°°°°

Graziella Torboli
2001



martedì 30 ottobre 2012

Monolog

Ich wollte sagen..
Hörst du meine Worte?
Sie schweben um dich.
       
          Siehst du meine Worte?
          Sie liegen um dich,
          zertreten und verstummt.

         °°°°°°

Graziella Torboli
2012

domenica 28 ottobre 2012

Cuor di mamma, cuor di donna


Cuor di mamma, cuor di donna


I due cuori sono uno
Che si alternano e confondono

Sentimenti intrecciati
Alle volte squilibrati

Cuor di mamma dà Amore
Cuor di donna vuole Amore

Cuor di mamma che perdona
Cuor di donna che ragiona

Cuor di mamma che intuisce
Cuor di donna che reagisce

Cuor di mamma dà la Vita
Cuor di donna vuol la Vita

Cuor di mamma ha temperanza
Cuor di donna vuol conoscenza

Cuor di mamma è generoso
Cuor di donna è pretenzioso

Cuor di mamma culla un bimbo
Cuor di donna culla un sogno

Se il conflitto ci raggiunge
Non lasciamoci ingannare

Ma doniamo ai nostri cuori
Due meravigliose ali.

°°°°°

Graziella Torboli
Ottobre 2012

sabato 27 ottobre 2012

un giorno

oggi e´stata una giornata grigia e piovigginosa. Non ho mai visto il sole. Ho acceso la stufa a legna in cucina ed ho fatto la gelatina di mele cotogne.
Ho preparato il rosmarino del mio orto, che avevo essicato, per macinarlo. Ho cucito dei sacchettini per i gioielli che crea mio figlio.
Non ho fatto grandi cose ma sono soddisfatta e mi sento felice nella mia casa.
Vorrei trasmettere ad altri quanto e´bella una giornata di silenzio con solo pioggia e vento ma con il fuoco della stufa a legna che scoppiettando racconta ...............


Graziella Torboli 2012

Eine Mutter erzählt......


Wenn die Kinder schlafen...


Es ist Abend. Ich bin allein und sitze an unserem großen Tisch in der Küche.
Ich genieße die Ruhe, die ersehnte Ruhe, auf die ich den ganzen Tag gewartet habe.
Die Kinder schlafen und überall im Haus ist es still. Ich sitze und esse ganz allein mein Abendbrot. Ausnahmsweise bin ich wirklich allein und horche ganz interessiert auf die  Geräusche, die das Haus und alles draußen von sich geben. Das Ticken der Küchenwanduhr und der tropfende Wasserhahn, der ewig undicht ist, wechseln  sich  im Takt ab. Es entsteht dabei ein Rhythmus, es ist wie Musik. Toc, tic, toc, tic... Ich freue mich und höre weiter zu. Von draußen höre ich das Sausen von Autos auf der Hauptstraße, es ist nicht sehr laut, es wirkt  als angenehme Hintergrundbegleitung und fügt sich sehr passend in den Rhythmus des Tickens und des Tropfens ein. Ich  esse weiter mein Abendbrot, es ist fast ein Nachtbrot, denn es ist schon ziemlich spät. Die Rhythmen des stillen Abends schweben um mich herum, ich denke nach. Hin und wieder muß ich die Ohren spitzen, weil ich etwas anderes höre oder zu hören denke.
Weint ein Kind? Ich halte einen Moment inne und spitze die Ohren. Nein, es war kein weinendes Kind, es war kein rufendes Kind, es war wieder das Echo.
So nenne ich inzwischen die Töne, die ich abends zu hören denke. Es wirkt wie ein langsames Nachlassen des ganzen Geschreis vom Tage. Es dauert wohl immer eine Weile bis die Stimmung im Haus sich beruhigt hat, nicht zu sprechen  von mir.
Trotzdem gehe ich kurz nach oben, wo alle meine Schätzchen schlafen und schaue nach, ob alles in Ordnung ist. Ich gehe von Bett zu Bett, von Zimmer zu Zimmer.  Alle sieben schlafen wie die Engel. Wie genieße ich diesen wunderbaren Moment, wo alle schlafen, alle gesund sind, alle nicht mehr schreien.
Diese Ruhe um mich herum ist derartig schön, daß ich trotz meiner Müdigkeit noch nicht ins Bett gehen kann. Außerdem muß ich mich noch etwas entspannen.
Ich lasse meine Ohren frei,  frei von der Verpflichtung des Hörens.  Meine Augen auch,  frei von der Verpflichtung des Sehens,  mein Kopf muß auch nicht mehr denken. Ich darf endlich einmal träumen. Ich darf endlich einmal  fliegen wie ein Schmetterling auf Blumenwiesen in phantastischen Welten, mich in Regenbogen einwickeln und mich auf rosa Wolken ausruhen, auf Delphinen über den Ozean reiten und mich von einem großen Adler in den Himmel hinauf tragen lassen,  damit ich  von dort die ganze Welt bewundern kann.

Das Träumen  wird  plötzlich gestört. Ein Schmerz in meinem Ellenbogen hat mich in die Realität zurückgebracht, ich hatte ihn wohl beim Träumen zu stark auf den Holztisch gedrückt. Ich schaue um mich, ich bin wieder in meiner Küche. Ich reibe mir die müden Augen und die Realität nimmt wieder von mir Besitz.
Der vergangene Tag kommt plötzlich auf mich zu, er nimmt alle meine Gedanken ein und ich erlebe das Geschehen des Tages wieder.

Heute war wirklich ein schwerer Tag. Vier Kinder in der Schule, drei zu Hause.
Es ist fast nicht zu beschreiben in welche Zustände man gerät, wenn in der Mittagszeit alle aus der Schule nach Hause kommen, während ich mit der Vorbereitung des Mittagessens beschäftigt bin. Es ist  einfach nicht möglich einen klaren Kopf zu bewahren.
Heute war es wieder so weit. Ein Aufeinanderfolgen von zugespitzten Situationen hat mich in der Überzeugung  bestärkt, das Mütter  ein  zweites Nervensystem bräuchten. Es wäre ein gerechter Antrag an Mutter Natur; schließlich soll auch Müttern die Lust zum Lachen erhalten bleiben.

Meine drei  kleinen Kinder sollten im Kinderzimmer spielen, dennoch waren sie sich ständig am zanken und riefen jede Sekunde “Mami”...”Mami”..
Wenn sie zufällig still waren, mußte ich schnell hingucken, denn  wenn Kinder nicht schreien, denken sie sich etwas aus und dies ist viel aufregender.
Sie rasten ständig in die Küche rein und  wieder heraus, während ich auf jeden meiner Schritte scharf aufpassen mußte.

Ich bemühte mich, das Mittagessen vorzubereiten.
Der Kleinste kam und zeigte auf seine Windeln. Oh nein, das auch noch!
Alle Töpfe vom Herd weg und schnell ins Badezimmer ( eine Etage höher).
Das Telephon, das  besonders von 12 bis 14 Uhr sehr aktiv wird, begann sich  ununterbrochen zu melden, wobei ich erst zur Stelle sein konnte, nachdem ich  den Telephonhörer  dem Anspruch der Kinder entwunden hatte. Es ist ja bekannt, wie gerne Kinder  telephonieren. Da sich meine Küche zwischen dem Kinderzimmer und dem Raum, wo das Telephon plaziert war, befand, raste ich ununterbrochen entweder nach links oder nach rechts, und ab und zu konnte ich mich kurz am Kochherd aufhalten, um mal  den einen oder anderen Deckel vom Topf zu heben, denn da kam schon der nächste Anruf.

Meine tolle Hilfe war ein Haushaltslehrling. Sie stand mir ständig zur Seite......und wartete geduldig auf meine Wünsche. Heute stand sie vor dem Waschbecken und wartete,  weil sie erklärt haben wollte, wie sie den Salat waschen sollte. Sie verlangte eine quasi wissenschaftliche Erklärung, denn sie mußte darüber einen Bericht  für die Berufsschule schreiben. Ich mußte tief Luft holen.
Doch bevor ich zu diesem komplizierten Vorgang  den ersten Satz ausprechen konnte, kam auch schon das erste Kind, mein Sohn, aus der Schule. Er kam nicht normal herein, er katapultierte zur Haustür hinein mit einer ungeheuren Geschwindigkeit, die meine gesamte Aufmerksamkeit verlangte, um mir zu erzählen, wie er beim Pausenbrotessen  auf eine Wespe gebissen hätte und dadurch auf die Spitze seiner Zunge gestochen wurde. Es war sehr aufregend und ich kümmerte mich kurz um seine verletzte Zunge.  Der Lehrling wartete geduldig, der Salat auch.
Das Telephon klingelte. Die drei Kleinen stolperten in die Küche und wollten die verletzte Zunge aus der Nähe sehen.
Ich schaute kurz in die Töpfe und widmete mich dabei gleichzeitig einer meiner Töchter, die mit ihrem halb gestrickten Pullover zu mir kam und für die Fortsetzung ihres Kunstwerks Hilfe brauchte. Ich strickte eine Reihe, erklärte, wo der Fehler war und lief schnell zu den Kleinen, weil sie so laut schrien.

Der Lehrling und der Salat warteten geduldig.
Der Lärm in der Küche nahm inzwischen sehr zu. Die Kinder waren fast vollzählig wieder zuhause und alle waren um mich herum, nicht zuletzt deshalb, weil sich nach der Schule alle aussprechen wollten.
Ich versuchte hartnäckig weiter zu kochen, obwohl ich nur noch eine Hand zur Verfügung hatte, weil ich mit der anderen  meinen Jüngsten halten mußte, der gerade Streicheleinheiten von mir brauchte, da er etwas müde war.
Als das letzte Kind, ein Mädchen, nach Hause kam, konnte man sich nur noch durch Schreien verständigen. Sie  wollte unbedingt etwas erzählen und  gab nicht auf, denn was sie in der Geschichtsstunde erfahren hatte war viel zu aufregend. So schrie sie mir ohne Punkt und Komma die Geschichte von der Verfolgung der  Christen in der Römerzeit entgegen. Sie erzählte es so phantastisch gut, daß ich auf einmal die Töpfe vergaß. Quel  malheur! Ich töpfte das Essen um und wusch den Salat. Der Lehrling schrieb auf.

Das Mittagsessen war fertig, wir saßen alle am Tisch, zehn Personen. Der Kampf war beendet. Mein ahnungsloser Mann saß am Tisch, wartete glücklich auf das, was seine liebe Frau wieder Tolles gekocht hatte und beschwerte sich über die unruhigen  Kinder.

Wenn ich nicht oft denken würde, daß das Leben ein Theaterstück ist, dann könnte ich wahrhaftig nicht mit nur einem Nervensystem auskommen.


°°°°°°°°


Graziella Torboli 
1990























3

Il sospetto


Il sospetto



Il sospetto di sicuro,
Non dev´essere ascoltato,

Ti raggira, ti confonde,
Fa vedere solo ombre,

E  un insetto dispettoso
Ed e´quanto mai dannoso,

E´una zecca maliziosa
Silenziosa e assai vogliosa,

Succhia il sangue tuo vitale,
Ti danneggia , ti fa male.

Solo nella tua chiarezza
Puoi trovare una certezza

Ci vuol sempre del coraggio
Per scoprir la verita´

E se segui questa via
Il sospetto svanira´.
.
°°°°°°

Graziella Torboli
2012

martedì 9 ottobre 2012

Eine "gute Nacht" Geschichte




Eine neugierige kleine Feder...


....... stellte sich eines Tages die Frage, warum sie immer auf der kleinen Ente bleiben sollte.
Nicht, dass sie mit der Ente unzufrieden gewesen wäre.
Oh, nein!, sie fand es sehr schön tagein tagaus geschaukelt zu werden. Es war auch interessant, dem Geschnattere der Enten zuzuhören. Sie hatten immer sehr viel zu berichten. Ihr ständiger Ärger mit den Schwänen sorgte für viel Geschwätz und alle Teichbewohner amüsierten sich darüber. Selbst die Frösche sangen nachts Lieder darüber und spotteten gern, sowohl über die Schwäne als auch über die Enten. Doch am liebsten hörte die kleine Feder das Vogelkonzert am frühen Morgen. Geschaukelt zu werden und Musik zu hören, das war ihr Lebenselixier. Auch das tägliche Baden wäre ein wahrer Genuss gewesen, wenn sie sich dabei nicht immer hätte krampfhaft festhalten müssen, um vom gelben Schnabel der Ente, der durch alle Federn Hausputz machte,  nicht rausgerissen zu werden.
Sie sah täglich viele ihrer Freundinnen kurz auf dem Wasser schwimmen, bevor sie an das Ufer des Teichs geschwemmt wurden und schließlich im Schlamm landeten. „ Nein, so wollte sie nicht enden.“ Sie fand sich sehr schön, wenn ihre weisse Farbe in der Sonne leuchtete und ihr weiches, zartes Wesen in der Morgenbrise wehte.
Leider gab es auch Tage, an denen ein starker Wind aufkam. Er sauste so heftig durch sie und ihre Mitbewohnerinnen, dass man im nachhinein nicht mehr wusste, wo einem der Kopf stand. Das war sehr aufregend für die kleine Feder, weil dies auch nicht ganz ungefährlich war, denn viele von ihnen wurden vom Wind einfach weggerissen und wer weiss wohin gepustet.
So hielt sich die kleine Feder immer sehr fest an ihr Entlein und das Entlein war sehr froh so warm gehalten zu werden.
Jedoch die Frage, ob es noch etwas anderes gäbe, als sich an das Entlein zu klammern, stellte sich die kleine Feder immer wieder. Sie träumte davon, die am Horizont stehenden Berge
einmal von nahem zu sehen und sogar zu besteigen. Natürlich waren das nur Träume einer kleinen Feder, die nichts anderes gesehen hatte, als den Teich in dem die Entlein schwammen. Aber diese Träume waren Sehnsüchte und Wünsche, die aus ihrer Neugierde und Lebensfreude entstanden waren. Ja, sie war ein sehr neugieriges und abenteuerlustiges Federlein.

Eines Tages merkte sie, dass nichts war wie sonst. Sie spürte kein schaukeln, keine leichte Brise wehte, sogar das tägliche Bad fand nicht statt. Sie sah die Sonne, aber sie ahnte nicht, dass es das letzte Mal sein würde.
Sie spürte plötzlich, wie sie durch einen starken Ruck vom Entlein abgerissen wurde und in einem dunklen Raum landete mit vielen anderen Federn zusammen.
Alle Federn flogen ziellos und erschrocken herum. Sie kamen und kamen nicht zur Ruhe. Die kleine neugierige Feder flog auch, mittendrin.
Sie flog mitten im Chaos, bemühte sich die Fassung nicht zu verlieren und fragte sich dauernd neugierig: „ Was ist passiert? Ich muss es herausfinden.“
Sie hatte, wie alle anderen grosse Angst und fragte sich: „ Was wird mit mir geschehen?
Die Zeit verging. Wie lange? Der Feder kam es unglaublich lang vor und sie war fast am Verzweifeln, als sie plötzlich eine bekannte Stimme hörte.
Im Gewühl der dunklen Kammer konnte sie zuerst nicht erkennen, welche Stimme es war. Doch als sie aufmerksam horchte, erkannte sie die Stimme der Frau, die sie öfters in der Nähe des Teiches sprechen oder rufen gehört hatte. „ Aber, aber, was machen die Menschen hier?“, fragte sich die kleine Feder.
In der dunklen Kammer wurde es immer enger und enger und die Federn rückten immer näher zusammen, so dass sie trotz ihrer Aufregung fast nicht mehr herumschweben konnten. Alles schien sich beruhigt zu haben, als die kleine Feder ein leichtes Klopfen von aussen spürte, was alle Federn schon wieder hochspringen liess. Das Klopfen dauerte eine Weile, bis die kleine Feder eine Stimme sagen hörte:
„So, Tommy, dein Kissen ist fertig.“
Die neugierige Feder vergass ihre Angst und begann über ihre neue Bleibe nachzudenken. Sie wollte unbedingt wissen, warum sie in diesem stockdunklen Ort gelandet war. Ihre Neugierde war sehr gross und im Gegensatz zu den anderen Federn, die andauernd jammerten, zog sie vor, die Zeit mit vielen Fragen und Gedanken zu verbringen.
Es verging eine lange Zeit bis sie plötzlich den Druck eines runden Gegenstandes auf sich spürte. Sofort wurde sie aufmerksam. „ Es tut sich etwas“, sagte sich die kleine Feder gespannt. Alle anderen Federn hatten es auch gespürt und vor Schreck das Jammern vergessen. Alle hielten den Atem an und merkten auf einmal, dass der runde Gegenstand immer wärmer wurde. Das war die angenehmste Überraschung des Tages, dachte die kleine Feder. Dann hörte man eine feine Stimme singen. Sie sang so schön, dass die Feder ewig zugehört hätte. Doch auf einmal hörte das Singen auf und der runde Gegenstand drückte zart und warm auf die Federn und bewegte sich nicht mehr.
Die kleine Feder dachte lange nach, doch ihre vielen vielen Fragen blieben unbeantwortet. Warum hatte sich ihr Leben so geändert, warum war sie im Dunkeln eingesperrt, warum, warum, warum....
In der Dunkelheit liess es sich für die kleine Feder zuerst sehr mühsam leben. Ihr war unter anderem auch langweilig. Sie nahm sich vor, eine Beschäftigung zu finden.
Zum Beispiel, was war draussen los? Was war der runde Gegenstand? Wer sang so schön? Was sagten sie? Sie nahm sich vor, jedes Geräusch zu beachten und machte ein Spiel daraus. Ein Beobachtungsspiel. Diese Idee erfüllte sie mit Glück und wie es auch glückliche Menschen oft tun, teilte sie ihre Idee den anderen Federn mit, um sie zum Mitmachen anzuregen. Leider liess sich keine dazu überreden, sie waren alle zu faul oder zu müde. Wohl oder übel musste die kleine Feder ihr Beobachtungsspiel allein betreiben. Das tat sie auch. So begann ihr Beobachtungsspiel. Sie stellte fest, dass die vielen Geräusche auch verschiedene Töne hatten. Sie begann, die Kinderstimmen von denen der Erwachsenen zu unterscheiden. Am Teich hatte sie damals auch mal kleine Kinder gesehen und gehört. Sie erfuhr auch, dass sie in der Nähe des Teiches war, denn die Stimmen waren die gleichen. „ Warum bin ich dann hier im Dunkeln?“, fragte die kleine Feder sich immer wieder.
Ihr Beobachtungsspiel brachte ihr eines Tages den ersten Erfolg. Sie hatte herausgefunden, dass der runde Gegenstand, der oft auf sie drückte, der Kopf eines Kindes war. Sie hatte ihn an seiner Stimme wiedererkannt.
Die kleine Feder hatte auch festgestellt, dass die Abstände des Kommen und Gehens des Kindes immer gleich waren. Sie wartete nun nur darauf, ihn wieder zu spüren.
Tagsüber war ihr etwas zu wenig los. Bis auf die tägliche Aufregung, bei der sie alle geschüttelt und geklopft wurden, bis ihnen speiübel war, passierte nicht viel.
Doch am Abend, wenn draussen die Stille eintrat, kam immer das Kind. Sie wartete den ganzen Tag auf diese Stille. Sie wartete auf das Kind, auf den runden Gegenstand, der sich so warm und zart anfühlte.
Sein leichtes Ein-und Ausatmen wirkte auf sie wie eine Sprache. Sie lernte dadurch seinen Schlaf zu verstehen, ob es ihm gut ging oder schlecht. Als alle anderen Federn in der Wärme einschliefen, begann für die kleine Feder die Spannung. Das Wachen über  die Nachtruhe des Kindes wurde zu ihrer Aufgabe.
Es verging eine lange Zeit.
Nacht für Nacht hatte die kleine Feder das schlafende Kind bewacht. Sie hatte sehr viel erlebt und kannte viel von ihm. Da sie nicht mit ihm sprechen konnte, hatte sie sich viele Strategien überlegt, um ihm Gutes zu tun.
Wenn es sich am Abend schwer aufs Bett fallen lies, wusste sie, dass es sich hilfslos fühlte. „ Warum ist das Kind traurig? Was kann ich für es tun?“, fragte sich die kleine Feder. Dann lies sie alle Federn zusammen kommen und gab Anweisungen, sich gemeinsam von links nach rechts und von rechts nach links zu bewegen, was sich von aussen wie ein Streicheln anfühlte. Das wirkte auf das Kind immer. Es wurde gestreichelt, bis es sich nicht mehr rührte. Bis es soweit war, dauerte es manchmal sehr lange und alle Federn waren danach richtig erschöpft. Die kleine Feder wusste, dass wenn das Kind schnell einschlief, es nicht zu traurig war, aber wenn es lange brauchte, grossen kummer hatte.
Es gab auch Nächte, in denen das Kind sehr unruhig träumte und sogar aus Angst wach wurde und zu weinen anfing. Das war ganz schlimm und die kleine Feder fürchtete diese Nächte. Deshalb hatte sie sich etwas Besonderes ausgedacht, um diese Alpträume des Kindes zu vermeiden. Sobald sie aus dem Atem des Kindes heraushörte, dass unschöne Träume im Anmarch waren, gab sie allen Federn das Signal zu hüpfen, bis das Kind wach oder fast wach geschüttelt wurde. Dann schlief es direkt wieder ein, weil das Streicheln der Federn eingesetzt wurde. Manche Nächte wurden für die Federn ein regelrechter Arbeitstag.
Wieder war viel Zeit vergangen. Viele Nächte hatte die kleine Feder den Schlaf des Kindes bewacht. Es war ihr grösster Freund geworden und sie liebte es. Sie hätte gerne gewusst, wie es aussah, aber sie konnte aus der dunklen Kammer nicht hinaus. Doch mit den Augen der Fantasie konnte sie es sich vorstellen und es sah wunderschön aus. Sie hatte auch bemerkt, dass es grösser geworden war, weil sich sein Kopf nicht mehr so leicht anfühlte wie früher. Ihr grösster Wünsch war, das Kind einmal sehen zu können.
Eines Tages, bevor die grosse Stille eingetreten war, kam überraschenderweise das Kind und legte sich aufs Bett. Die kleine Feder merkte aber, dass es seinen Kopf nicht auf das Kissen gelegt hatte. Sie  fühlte sich plötzlich gedrückt, festgehalten und hörte ein regelmässiges starkes Klopfen. „ Was wird das sein?“, rätselte die kleine Feder.
Dann hörte sie ein Schluchzen. Das Kind weinte. Das Klopfen hörte nicht auf und es hämmerte und hämmerte.
Auf einmal fiel es der kleinen Feder ein!
Dieses Klopfen hatte sie schon einmal gehört. „ Ja,Ja“, schrie sie los, es war bei der Ente gewesen. Sie hatte immer wieder dieses leichte Klopfen gehört und erfahren, dass es das Klopfen des Herzens war. Jetzt wusste sie auch was draussen geschehen war.
Das Kind hatte das Kissen, das es so liebte, ans Herz gedrückt, als ob es von ihm Halt gesucht hätte. Ja, das Kind hatte grossen Kummer. Als die warme Tränen des Kindes durch das Kissen flossen, fühlte sich die kleine Feder ganz hilflos.
Alle Federn waren regungslos. Sie waren vor Traurigkeit erstarrt. Die kleine Feder wünschte sich gross und stark zu sein, um sich aus dem dunklen Raum befreien zu können. Sie wünschte sich, dem Kind noch näher zu sein, um ihm Trost und Freude zu schenken.
Sie wünschte sich, es zu kitzeln, um es zum Lachen zu bringen...
Sie wusste leider, dass diese Wünsche nicht zu erfüllen waren. Doch etwas musste sie trotzdem versuchen, sie schaffte es nicht bei so viel Leid untätig zu bleiben.
Sie rief alle Federn zu sich und forderte sie auf, die Streichelbewegung einzusetzen, besonders aber dort, wo das Klopfen am stärksten zu spüren war.
Tausend und abertausende kleine Federn streichelten das Herz des kleinen weinenden Kindes bis es einschlief.
„Gute Arbeit“, lobte die kleine Feder und dann schliefen sie vor Erschöpfung alle ein.

Eines Tages, nach dem üblichen morgendlichen Schütteln und Klopfen, lag das Kissen frisch gelüftet auf dem Bett. Alles sah wie immer aus. Jedoch im Kissen, wo die kleine Feder mit allen anderen wohnte, herrschte grosse Aufregung. Ein Lichtstrahl war in den dunklen Raum gedrungen. Alle Federn hatten sich vor dem Lichtstrahl zusammengedrückt, um festzustellen was es war. Sie drängten und drängten so sehr, dass es unmöglich wurde, etwas zu sehen. Die kleine Feder, die bei allen inzwischen viel Respekt gewonnen hatte, schaffte es den Tumult zu beseitigen. Nachdem sich alle von dem Lichtstrahl entfernt hatten, näherte sie sich ihm und wurde von dem Licht geblendet, doch nicht so stark, dass sie nicht weiter gehen konnte. Sie ging auf das Licht zu und auf einmal war sie auch schon draussen. Ein Windzug hatte sie regelrecht herausgesogen. Sie flog im Raum herum. Sie war frei. Sie sah die Sonne. Welches Glück spührte die kleine Feder. Unbeschreiblich!
Sie sah endlich den Raum, in dem sie so viele Jahre gelebt hatte. Sie wollte alles, aber wirklich alles sehen. Sie flog unermüdlich. Sie liess sich vom Wind von links nach rechts treiben. Sie legte sich auf jedes Möbelstück. Sie streckte sich und schüttelte sich. „Die Sonne, die Sonne!“ schrie sie glücklich immer wieder.
Doch worüber sie sich besonders freute, war der Gedanke, dass sie jetzt endlich das Kind sehen konnte.
Plötzlich fielen ihr die Federn ein, die noch in der dunklen Kammer waren. Sie flog schnell bis zu der kleinen Öffnung und schaute hinein. Viele kleine Federn standen reglos vor ihr und schauten sie an. „Na, was ist? Kommt ihr nicht mit?“, fragte die kleine Feder.
Nach einer Weile eisiger Stille wagte eine Feder zu sprechen und sagte: „ Wir wollen nicht nach draussen gehen, wir sind an diesen Ort gewöhnt und wollen hier bleiben.“
Die kleine Feder war sprachlos, sie konnte sie nicht verstehen und vielleicht wollte sie auch nicht. Sie grüsste alle und ließ sich wieder vom Wind hochtreiben.
Sie schwebte stundenlang vom Wind getragen und genoss die gewonnene Freiheit.
Schließlich ließ sie sich auf dem Kleiderschrank nieder. Dort wollte sie bleiben und auf das Kind warten.
Als es schon dunkel war und die kleine Feder halb eingeschlafen war, ging die Tür plötzlich auf und das Licht wurde eingeschaltet.
Wieder blendete das Licht die kleine Feder, die solange im Dunkeln gelebt hatte und deshalb nicht direkt erkennen konnte, wer ins Zimmer getreten war.
Kurz danach konnte sie aber genau hinschauen und da sah sie ihn. Es war das Kind, das sie schon so viele Jahre kannte. Sie erkannte es direkt, denn es sah genau so schön aus, wie sie es sich vorgestellt hatte.
Seine Augen leuchteten wie Sterne und sein Kopf war mit schwarzen glänzenden Locken bedeckt. „ Genau so hatte ich mir das Kind vorgestellt“, sagte sich die kleine Feder begeistert.
Von hoch oben auf dem Kleiderschrank beobachtete sie alles, was der Junge machte, bis er sich ins Bett legte.
Dann schaute sie hinunter, gab sich einen Ruck, flog auf ihn zu und legte sich auf seine Wange. Sie wünschte sich schon lange, ihm einen Kuss zu geben.
Das Kind bemerkte die Feder auf seiner Wange, nahm sie in die Hand, schaute sie an und entzückt streichelte es sie über sein Gesicht. „ Was für eine wunderschöne Feder“, sagte es leise. Danach stand es auf, öffnete seinen Schrank und holte seinen Hut heraus an dem schon ein Edelweiss steckte.
In einer Hand hielt es den Hut, in der anderen die kleine Feder. Ohne zu zögern steckte es die kleine Feder neben das Edelweiss und sagte leise: „ Jetzt wirst auch du immer mit mir in den Bergen wandern.“
Die kleine Feder konnte es nicht fassen. „ In die Berge! Ich werde in die Berge gehen!“

Alle ihre Träume gingen an jenem Tag in Erfüllung und die kleine Feder stolzierte glücklich ein Leben lang auf dem Hut  des geliebten Kind.


******

Graziella Torboli 2003












9


sabato 6 ottobre 2012

Ägypten


Das Tal der Könige

Drückende Hitze,
Sandfarbene Felsen,
Im Halbkreis geflochten.

Eine Wiege des unendlichen Schlafes,
Ein Tal der Hoffnung ..., auf danach.
Ein Haufen ruhender Schätze.

Durchlöcherter Fels
Durch menschliche Gier,
Durch menschliche Neugier.

Der Schlaf der Könige
Vom Licht gestört,
Von Schätzen beraubt.

Der Tod einer Illusion,
Die (Wieder-)Geburt einer alten Kultur.
Ein Staunen der Moderne.

°°°°°
Graziella Torboli
 2006

venerdì 28 settembre 2012

Alles und Nichts


Alles und nichts

Ich bin ein Hauch
ein Lichtpunkt
einen Windstoß

Ich fliege, schwebe, kreise,
ich bin allein
ich bin in alles.

Ich fühle meine nichts
in das ewige nichts

ist nichts alles?
ist alles nichts?

°°°°°

Graziella Torboli
1987

sabato 22 settembre 2012

la tristezza



La tristezza

Il velo grigio della tristezza
se pur leggero
ti pesa addosso.

Non puoi cacciarla
non puoi domarla
non devi pensare
di non averla.

Anche se il mondo
ti appare piú grigio
anche se il sole
non ha la sua luce.

Anche se l´anima tua non sorride
anche se la tua mente sragiona
lasciati essere triste e perdona.

Come la nebbia
appare e sparisce
la tristezza ti ammala
ma poi ti guarisce.


°°°°°°°°

GraziellaTorboli  1999








sabato 15 settembre 2012

Reflexion


Reflexion heisst, im eigenem Müll
wühlen und ihn aussortieren.

Wer macht das schon freiwillig?

°°°°°
Graziella Torboli
2012


venerdì 14 settembre 2012

il rispetto

Il rispetto e´come l´amore.
Se non lo abbiamo per noi
non possiamo darlo ad altri.

°°°°°
Graziella Torboli
2012

giovedì 13 settembre 2012

Am Fluss



Am Fluss


Schwerlose gedanken,
wie flocken schwebend
in der morgenröte.

Das wasser fließt,
weich, hüpfend,
von stein zu stein
unendlich.

Wogendes herz,
auf mohnblumenfelder
es schaut auf die sonne
von wolken bedeckt.

Schwere gedanken,
feindliche gesellen,
feuerspuckende drachen,
in dunkler nacht.

Sehnsucht nach nähe,
sehnsucht nach wärme,
sehnsucht nach Dir.


°°°°°

Graziella Torboli 
2010

domenica 9 settembre 2012

F. Nietzsche



Verleumdungen sind Krankheiten anderer, die an deinem Leibe ausbrechen.


F. Nietzsche

martedì 4 settembre 2012

Ricordi (dialetto rivano)

Me ricordo.... 

Quan che ero putelota
me piaseva nar lontan
a trovar me zii en campagna
via nel Friuli, fin Avian.

Ne la casa de campagna
ghera bestie de ogni sort,
ghera vache e asenei 
oche, anedre , polastrei.

Mi pasevo le zornae
a sfogar la matarela
fevo corse drio ai polastri
e ngiardin fevo disastri.

Me piaseva star en cosina
 ndo me zia léra regina,
e a cucar dent le padele
me  vegniva l´acquolina.

Me piaseva quan me zio
el menava el car col bo´,
mi saltevo su de drio
e corevo en su en zo´.

Me cusini, tutti masci,
coi da forca da no dir,
i so zoghi i era duri,
ei me feva tribular.

Dopo zena tut de colp
deventevo brava e cheta
no volevo che i penses
che dovevo nar nel let.

Ferma su na caregota
quan che tutti i era nai
aspetevo che me zia
la finis el so via vai.

Quan che po´la se meteva
el scial nero su le spale
me pareva gnanca vera
de nar for en vers le stale.

Dopo en par de passi al strof,
con me zia arent ben streta,
ariveven a la stala
 per polsar su na bancheta.

Me n`cantevo a vardar su
el slusor de na luzeta
che pendeva zo da n´ traf
tuta en mez a ragnatele 
da parer en sol n´nebiá.

E n´sta luce fioca fioca
ghera n´aria de mistero
che se ero en po nsognada
 tut de colp la me sveiava.

Ghera zent de la contrada
 tutti lí sentadi zo
done. omeni e putei
a ciacerar, a far filó. 

Uno el se fumeva la pipa
naltro en toc de sigaret
i parleva i rideva
e le vache le vardeva.

Le vedevo li a do passi
 asfiar e a ruminar
coi so oci lagrimosi 
ma i pareva anca curiosi.

El rumor de quan le asfieva
el me feva ntimorir
el vapor dai so nasoni
me pareva do vulcani.

mi tachevo a imaginar
 gnomi e fate a non finir
mostri che spueva foc
e me feva inorridir.

Fra el caldin e la luzeta
li vizin a la me zia
encantada da le ombre
che vegniva e neva via,

Mi me ndromenzevo cheta
Li sentaa su la bacheta.

°°°°°
Graziella Torboli
 2001

domenica 2 settembre 2012

Una Fine

Una Fine

Un velo di ghiaccio mi avvolge
Sento freddo
E´svanito un sogno d´Amore
svanito nel nulla
Un sogno, un´attimo magico
Sono sgomenta e triste
Cammino su spine di rose.

°°°°°

Graziella Torboli
2012

mercoledì 29 agosto 2012

Was bedeutet Überheblichkeit?

Anmaßung, Arroganz, Selbstherrlichkeit, Einbildung
und...... und..... und....
und sie lässt uns einsam und allein in der Wüste vegetieren.

°°°°°

Graziella Torboli

martedì 28 agosto 2012

Festgelegte Gedanken



Festgelegte Gedanken


Festgelegte Gedanken
im Körper festgebissen
wie Hunde
die beißend überfallen.

Der Körper schmerzt
der Biß blutet
der Hund knurrt.

Wenn wir weglaufen
laufen sie hinterher
wenn wir stehen bleiben
beißen sie umher.

Ein Wesen und ein Geist
sie schließen uns in Kreis
und üben ihre Macht.

Wir sind ihn ausgeliefert
wir sind in dunklem Raum
wie kommen wir daraus?

Man läßt sich nicht entmutigen
und auch nicht blutig beißen
man sucht nur den Gedanken
der uns zum lachen bringt.

°°°°°

Graziella Torboli
1999

venerdì 24 agosto 2012

le sorele - Poesia in dialetto rivano


Le sorele

Quan che se vein su
con den sdravel de sorelote
te par de far na vita dura
quan che le ziga o le se da bote.

Ma po col temp
ariva mpoc de paze
se sparlota, se sbegota
ma nase en cor la tenereza.

Quan che ariva i morosoti
taca n´aria de misteri
ghé n´via vai davanti al spegio
e i vestiti che fa mucio.

A ´ncontrar i spasimanti
fevem mile sconderole
nossa mama la vardeva
ma i so oci no i basteva.

Fora ghera doi de lori
chei speteva zo al lampiom
do sorele le scapeva
do le era de piantom.

Quante corse che avem fat
quan chel temp l´era passá
rampeghevem su dai muri
se ´l portom l´era enciavá.

E pó ghera quele not
tute calde e luminose
eren lí nei nossi letti
tute al strof ma npoc ansiose.

Ascolteven le canzon
che i soneva su al Bastion
e sogneven de scapar
coi morosi e a balar.

Le pu vece le parleva
de le storie coi morosi
le pu zovene le taseva
e ogni tant le domandeva.

Dopo anni de via vai
ne sem tute maridade
gaven na sciapaa de fioi
tuti alegri come noi.

E pareva che la vita
laves dit „ va ben cosí“
la ne aveva sistemade
come spose ben domade.

Ma a na curva en poc pu streta
su la strada de la vita
sem nae fora de bugada
fin en fond zo na scarpada.

E cosi é capitá
che aven tute divorziá
sem partie coi fioi en gropa
e a polsar desmentegá.

Ancoi che gaven fioi grandi
sem en poc nveciae de fora
ma per far baldoria ensema
no ghe pensem su per n´ora.

Ogni tant beghem ancora
e ne disem su de brut
ma nel cor ghé lí da alora
quela grande tenereza
che la conta pu de tut.


___


Graziella Torboli
 2001



giovedì 23 agosto 2012

Die Mentorin


Früh am Morgen


Wenn ich jemals angezweifelt hätte, dass Kinder uns in Form halten, dann hätte sich dieser Zweifel an dem Tag in Luft aufgelöst,  an dem ich mich um 6 Uhr früh beim Sonnenaufgang  auf einer durch Tau genässten Wiese am  Turnen befand.
Das Groteske war, daß ich weiß Gott nicht freiwillig dorthin gegangen bin, zumal das Frühaufstehen, insbesonders am Schuljahresende, eine Art  Heldentat für mich darstellte. Außerdem war ich nie und niemals ein Konditionsfanatiker, eher das Gegenteil.


Die Morgensonne schlug lange Schatten auf die Wiese, der Tau blinzelte mich an, eine leichte Brise wehte, zwei Störche flogen tief über meinen Kopf und ich schaute vor mich hin.
So schön wie die Landschaft auch aussah , dank meiner  Müdigkeitstränen konnte
ich sie nur in Wellenbewegungen  bewundern.

Von dort aus wo ich stand, konnte ich die Schülerin sehen, der ich als Strafe drei- mal Laufen um den Sportplatz gegeben hatte.
Das war also der  Grund, warum ich da stand.
Viel denken konnte ich nicht, dafür war ich zu müde.
Mich hinlegen auch nicht , dafür war die Wiese zu nass.
Weggehen  auch nicht, weil sonst die Schülerin die 3 Runden nie und niemals gelaufen wäre; und ich hätte an meiner Konsequenz  zweifeln müssen.

Ich schüttelte mich, ich fror.

Also begann ich zu  turnen;  erst bog ich mich leicht nach vorne, dann streckte ich die Arme nach außen, machte Kniebeugen und zwischendurch legte ich kurze Laufstrecken zurück.
Mir wurde plötzlich bewußt, daß ich Morgengymnastik machte.
Ich erschrak fast und schaute schnell um mich herum, ob mir jemand zusah; nein,  bis auf zwei Dachdecker, die in der Ferne auf einem Dach standen und wie  zwei Zinnfiguren aussahen, war niemand zu sehen!
Nur eine undisziplinierte Schülerin und eine hartnäckige Erzieherin hockten an einem Samstag morgen auf einem Sportplatz; beide aufeinander  sauer, weil sie aus verschiedenen Gründen so früh aufstehen mußten.
Als sie zum  zweiten Mal an mir vorbei lief, schaute sie mich mit einem hoffnungsvollen und fragenden Blick an: muß ich weiter laufen? Ein leichtes Kopfnicken war meine Antwort und sie lief non-stop weiter, während ich meine Turnübungen fortsetzte.

Vielleicht wurden meine Gehirnzellen durch das Einatmen von so viel Sauerstoff  schneller als sonst aktiviert, denn plötzlich ging mir eine Frage durch den Kopf:
Was mache ich hier? Wo bin ich ?


Eigentlich wollte ich nur konsequent sein, die Schülerin sollte etwas Disziplin lernen und zur Einsicht  kommen. Jedoch diejenige, die zur Einsicht kam, war ich.
Eines war klar: die Schülerin wußte bestimmt, warum sie herum laufen mußte. Ich wußte aber nicht, warum ich um 6 Uhr früh Gymnastik machte, zumal ich viele andere Strafen zur Auswahl  gehabt hätte, die wiederum nicht mich so hart  getroffen hätten.
Ein kitzelndes Gefühl, das sich in meinem Bauchbereich  bemerkbar machte, wuchs schnell  an und brachte mich zu einem heftigen Lachanfall.

Ich lachte in die Morgensonne hinein,  ich lachte auf einer taufeuchten Wiese, ich lachte in die wehende Brise, ich lachte zu den fliegenden Störchen.
Ich lachte über mich und über meinen Erziehunsstil, über mein Konsequentseinwollen und über den Glauben,  alles im Griff zu haben.

Meine gewonnene Einsicht nahm Form an und ich sagte zu mir:
Nicht wir, sondern die Kinder haben uns im Griff. Sie schaffen es, uns Tag und Nacht auf Trab zu halten, sowohl körperlich als auch geistig. Sie halten uns in Bewegung und ziehen uns an ihrer Leine, wie sie es brauchen, und wir laufen......laufen.....laufen .....hinter ihnen her.


°°°°°°

Graziella Torboli – 1994




























2


 

lunedì 13 agosto 2012

Weisheit

Der Prozess des Davonlaufens vor dem Problem ist
das Entstehen der Hoffnung.
Der Geist, der sich dem Problem entzieht,
gebiert Angst.


J. Krishnamurti

giovedì 9 agosto 2012

Liberta´


Liberta´


Aldila´delle societa´,
aldila´delle leggi,
aldila´delle culture,

una cosa preziosa,
una cosa vitale,
una cosa alata,

la liberta´di essere,
la liberta´di lasciarci essere,
e finalmente.... vivere.


°°°°°

G.Torboli. 2012



















sabato 4 agosto 2012

4 .8. 2012

Sara´perche´mi piaccioni i numeri, ma questa data di oggi mi piace molto.
Ecco perche´ho pensato di ricordarla.
Che si fara´oggi?
La salsa di pomodoro . In cantina aspettano 150 Kg, di pomodori maturi.
Sara´un lavoro in famiglia e all´aperto. Molto divertente.
L´unica cosa che mi da un po´fastidio e´il grande caldo!!!!!
Ce la faremo!!!!!!!!

mercoledì 1 agosto 2012

Dunkelheit zum Licht



Von Dunkelheit zum Licht


Es nähert sich das Ende
Es ist wie das Nichts
Es ist wie der Tod

Das Ende einer Storia
Das Ende einer Zeit
Das Ende des Nichtwissens

Das Ende einer Idee
Das Ende einer Vorstellung
Das Ende eines Traumes

Es wird Tag
Die Sonne strahlt
Das Licht ist Wahrheit

Ich sehe mich.


°°°°°

Graziella Torboli
1987




venerdì 27 luglio 2012

Schönheit


Der Mensch, der nur schöne Dinge liebt, träumt;

der Mensch aber, der die Absolute Schönheit liebt,

ist hellwach.

Der Eine hat nur eine Meinung,

der Andere aber Erkenntnis.

Die Meinung befaßt sich also

mit einzelnen schönen Dingen,

die Erkenntnis aber

mit der Schönheit selbst.




Bertrand Russel

martedì 24 luglio 2012

Anne-Sophie


Anne Sophie

Sotto il sole marzolino
nacque un dí
un bel pesciolino.

Era bello e rotondetto
sorrideva per diletto
e soleva passeggiare
sulle onde in alto mare.

Si lasciava soleggiare
si lasciava galleggiare
ma osservava tutt´intorno
e pensava notte e giorno.

Quando fu piú grandicello
prese in mano il suo fardello
se ne andó a far conoscenza
della vita e della scienza.

Se ne andó per altri mari
imparó a nuotar profondo
„Perché mai ?“ chiesero loro
„ Era un pesciolino d´oro“
gli rispose un grande coro.

°°°°^
G.Torboli


Die Seele und das Meer


Die Seele und das Meer


Du bist die,
die das Meer sieht.

Du bist die,
die das Plätschern der Wellen hört.

Du bist die,
die der Sonnenuntergang beglückt.

Du bist die,
die das kleine Mädchen anschaut,
das mit dem kleinen Hund und seinem Fahrrad
am Strand auf und ab fährt

Du bist die,
die zum Horizont sieht.



°°°°°°°°

G.Torboli 2002



mercoledì 11 luglio 2012

Köln


 KÖLN


Ich bin zu dir gekommen
als Feriensouvenir
ich kam aus einem Land
wo man gut singen kann.

Du warst mir neu und fremd
mit viel zu grosse Häusern
dann ging ich lang am Rhein
und war nicht mehr allein.

Ich sah die vielen Brücken
so elegant und stark
ich dachte sie sind Riesen
und ehren diese Stadt.

Von ein zum andern Ufer
verbeugen sich zum Dom
und machen aus der Altstadt
`nen regelrechte Traum.

Wie Agrippina, ein Weib,
liebst du den Schmuck und Glanz
hast Ringe und Gürtel grün
und saphir blaue Seen
zersteut um dich herum.

Du hast mich aufgenommen
in deine schöne Pracht
dein Witz mir nicht verborgen
dein Herz zu Hand gehabt.

War ich zuerst von Karneval
schockiert von Kopf bis Fuss
du nahms mich an der Hand
und sagtest: mach doch mit.

Ich tanzte Tag und Nacht
trank Kölsch und rief „ Kamelle“
sang mit die Kölsche Lieder
und rief dann „ Kölle Alaaf „

Ich musste dich verlassen
mein Schicksal hat´s bestimmt
so packte ich Kind und Kegel
und suchte erneut das Glück.

Das Leben gibt und nimmt
und lässt uns mal schockiert
du Köln warst mein Zuhause
vejess mi bitte nit.

°°°°°

Graziella Torboli  
2000


martedì 3 luglio 2012

Insicurezza

Insicurezza


Odi una voce,
sono parole,
la mente apprende,
il cuore trema.

Sono parole,
solo parole,
la mente si oscura.
il cuore trema.

Sono parole,
riposa la mente,
ascolta la voce,
di un cuore che ...sa.


°°°°°°

Graziella Torboli
2012

Ein Ball


Ein Ball als Kerzenhalter


Ein Träger des Lichtes
Rund, rot, grün,
Ein Träger des Lichtes,
leuchtet, strahlt.

Er will rollen, hüpfen, fliegen.
Er rollt nicht,
wirft Schatten.

Was ist ein Ball
Der nicht ein Ball sein darf?

Ein traurige Ball.

°°°°°°

Graziella Torboli


lunedì 2 luglio 2012

Bewegung



Bewegung



Es gibt Menschen, die lieben,
es gibt Menschen, die hassen,

Sie tun etwas Gutes,
sie tun etwas Böses,

Es gibt Menschen, die nicht lieben
Es gibt Menschen, die nicht hassen,

Was tun sie?

Sie stehen im Wege!


°°°°°°°

Graziella Torboli

giovedì 21 giugno 2012

Lass mich leben



Lass mich leben


Dein Maß schiebst Du vor,
Dein Maß paßt nicht zu mir,

es ist zu groß,
es ist zu klein,

Warum wird mein Leben
von Deiner Vorstellung bestimmt?

Wer bist Du?
wer bin ich?

Ohne Liebe wären wir uns fremd,
wir sind zwei Leben.

Warum sagst Du das Wort „Liebe“,
und dann willst du herrschen?

Warum willst Du nicht sehen?
Was hält Dich fest?

Der Tod?

°°°°°


Graziella Torboli
1987

Es war


Es war

Du willst mich?
Bin ich zu haben?

Du willst von mir Taten
Du willst von mir Schein
Du willst von mir Achtung,

warum willst Du mich?

Du willst irgend etwas,
Ich bin irgend Jemand!

°°°°°


Graziella Torboli
1987

venerdì 15 giugno 2012

Die Leere


Die Leere



Ich fühle mich flach und öde. Es ist nicht leicht, das ganze Leben wahrzunehmen. Man sieht immer nur Teile davon, als ob man mit kleinkarierten Brillengläsern hinschauen würde.
Die Teile, die uns vertraut sind, das Gewohnte, das Gelernte, das Alltägliche. Man wünscht sich  und man erwartet es als selbstverständlich, dass diese Teile sich wiederholen und dass sie uns immer die erwartete Erfüllung schenken. Man nimmt sich etwas vor, man sucht Beschäftigung, doch irgendwann wird diese zu Wiederholung, zum Zwang. Alles was uns einmal Spass gemacht hat, wollen wir wiederholen. Warum?
Die vielen Fragen bleiben ohne Antwort. Es ist traurig. Was sollen überhaupt die viele Fragen?  Doch in dem Moment, in dem eine Frage aufkommt, sollte man auch eine Antwort dafür finden, denn man stellt sich eine Frage, wenn man etwas nicht versteht.
Was versteht man nicht vom Leben, wenn man es verstehen will?
Was sieht man nicht vom Leben, wenn man es sehen will?
Muss man überhaupt verstehen oder mehr sehen, oder das Ganze sehen?
Als Beispiel könnte man, wie oben schon erwähnt, sich flach und öde fühlen, sich leer fühlen.
Das Gefühl der Leere. Es  ist kein angenehmer Geselle, aber er bezieht einen festen Platz in unserem Leben.
Jetzt kommen die Fragen. Sollte man es zulassen und abwarten bis das Gefühl der Leere wieder verschwindet? Sollte man sich bemühen zu verstehen, warum es da ist?
Ist das Gefühl der Leere positiv oder negativ?
Man empfindet es meistens als negativ. Alles was leer ist, kann uns nichts geben oder wir denken es, oder wir haben es so gelernt.
Selbst im Wörterbuch bekommt das Wort, leer oder Leere, fast nur eine negative und triste Bewertung. Während das Wort ,voll oder Fülle, vor positiver Bewertungen sich kaum retten kann.
Nun haben wir hier  eine ganz bestimmte „Leere“ zu verstehen. Die Leere, die in uns vorkommt, die Leere, die uns hilfslos, nutzlos, ideenlos vorkommen lässt. Diese Leere, hat nicht zu sein in einer Zeit die ausschliesslich von Antagonismus lebt.
Die ganze Gesellschaft ist bemüht, sich gegenseitig einzuprägen, dass man immer aus dem Vollen schöpfen soll oder kann.
Das Rennen aus dem Vollen zu schöpfen ist nicht aufzuhalten und wir alle leiden darunter. Wieder eine Frage: Warum lassen wir dieses Leiden zu? Ist es ein Leiden?
Haben wir vielleicht  einen natürlichen Vorgang in ein Leiden umgesetzt? Und wenn, warum? Haben wir etwas nicht verstanden? oder falsch verstanden?
Zum Beispiel, könnte man die Leere als Erleichterung bewerten? Man ist leicht, man ist leer. Macht uns aber diese Leere Angst? Ist die Fülle das Gewohnte, das Alltägliche, was uns Sicherheit gibt, was von uns erwartet wird, was uns Bestätigung gibt ,usw.? Ja.
Was machen wir mit der Leere, die in uns existiert und auch nach ihren Rechten schreit?
Die wollen wir nicht. Die verdrängen wir in den Schatten.
Da liegt unser grösster Fehler, denn Polaritäten darf man nicht  getrennt wahrnehmen,  nur zusammen ergeben sie einen Sinn.
Das Polar – bewerten verursacht uns den grössten Stress.“ Fülle gut - Leere schlecht.“

Unsere Lebensqualität ist gesichert, wenn wir immer „aus dem Vollen schöpfen“ können.
Doch diese Lebensqualität hat uns zum  Abbild eine Maschine gemacht . Eine Maschine, deren Aufgabe das Funktionieren ist und,  der dafür  ein Wert  beigemessen wird. Dieser Wert, der nur und allein materiell ist, gibt uns ein Statussymbol und stärkt wiederum unser Schein....Selbstwertgefühl.
Hier angekommen müsste unser Glück vollkommen sein. Warum ist es aber nicht? Warum nimmt in der Gesellschaft die Depression gewaltig zu? Warum setzt sich die Depression uns im Weg?
Was haben wir nicht richtig gemacht?

Vielleicht konnte man sich besser fragen, was wir nicht gemacht haben?
In wenigen Worten könnte man es so ausdrücken. Wir haben nicht gelernt, unsere Leere zu erkennen und zuzulassen. Wir haben nur gelernt auf die Fülle zu achten und die Fülle als positiven Zustand zu bewerten.
Doch, wie kommen wir zu Fülle? Wie lässt sich die Fülle füllen?  Ist sie selbstverständlich? Kann man einen Behälter füllen und aus ihm unbegrenzt  schöpfen? Nein.
Der Behälter entleert sich und will wieder gefüllt werden. Auf uns übertragen heisst das, wir brauchen immer wieder eine Pause. Eine Pause die uns die Zeit gibt, die Leere wieder zu füllen denn nur ein leerer Behälter lässt sich füllen. Das heisst auch, wir brauchen Zeit um uns zu erneuern. Wir verändern uns ständig und  diese Veränderung braucht ihren Ausdruck. Wenn wir sie nicht zulassen verschwenden wir viel positive Energie und  werden unglücklich.
Wie müssen lernen uns die Zeit zu nehmen,  unsere Leere zu füllen, genau wie wir auch Zeit brauchen um die Fülle zu leeren. Dieser Rhythmus sollte berucksichtig, werden denn es ist der Rhythmus unserer Seele. Und jetzt wieder eine Frage. Ist die Seele nicht die Quelle unserer Kreativität? Wenn, Ja, dann sollten wir unsere Seele ernsthaft wahrnehmen.
Es kommt  nämlich, nicht darauf an wie viel wir haben, nehmen oder geben. Ausschlaggebend ist die Wahrnehmung dieser zwei gegenzätzlichen Zustände in uns und lernen damit umzugehen.

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Graziella Torboli











mercoledì 6 giugno 2012

Was ist leben?


Was ist „Leben“ ?

Auf die Frage
was ist Leben?
kommt die Antwort
der Natur

Sie lebt vor
was wir mit Denken
ja, vergebens
dauern suchen

Läßt das Denken
uns vergessen
daß wir sind
ein Teil Natur?

Läßt das Denken
uns´ren Kern
weitweg schieben
von uns Fern?

Schau der Baum
er ist sich selbst
er gibt sich selbst
und nichts verstellt.

Schau die Blume
ob rot ob  gelb
sie blüht und duftet
für uns all´.

Was gibt der Mensch
außer sein Denken
wann läßts sich leben
wann läßts sich schenken?

Er meint zu leben
und such einen Sinn
mit geschlossene Herz
will Freude gewinn´.


Graziella Torboli

lunedì 28 maggio 2012

al me dialet - dialetto rivano


Al me dialet


To´porta´via con mi
en sac de ani ndrio
quandera zovena
quand che se feva l ámor.

To´ porta via, cosi  come te ere
denter de mi , cosi sensa pensar
me sentiva con ti come a me casa,
e quan gaveva fret, te me scaldeve el cor.

Te me conteve storie
de Riva e dei paesoti,
storie de la Rocheta
e storie del me lac.

E´za pasa´ tant temp
da quand che sem partii,
a Riva i parla en ponta
e a ti gnanca i te conta.

Son deventaa grisa e mpoc veciota
e ho mpara´a parlar come i foresti
ma quan che gavevo nostalgia
 te ere li a farme compagnia.

Ho parla´de ti ai me puteloti
che i vegniva a Riva da foresti
 i te vol  tuti ben come a so mama
anca se tanta zent la ne condana.

Quan che parlo de ti con quei de Riva
i me varda de travers e po i  me ziga
„sto dialet l´e´roba vecia, de na volta“
e mi me vardo ntorno em poc stravolta.

Alora anca ti, no te se´pu de Riva
ti, che come mi te sere nat
su per en croz o dent en toc de lac
en quel paes che ghe ciameven „ nos „.


Graziella  Torboli

giovedì 24 maggio 2012

Gedanke

Die Schule  sollte eine Herausforderung für die Stärke der Jugend sein und nicht eine Verwaltung ihrer Schwäche.

G.Torboli

lunedì 21 maggio 2012

B. Russel


Der Bericht eines dummen

Menschen über die Aussprüche

eines klugen Mannes ist niemals

genau, weil er das Gehörte

unbewußt so umwandelt,

daß er es verstehen kann.



Bertrand Russel




Konfuzius


Gefahr entsteht, wo einer sich auf seinem Platz sicher fühlt.

Untergang droht, wo einer seinen
Bestand zu wahren sucht.

Verwirrung entsteht, wo einer alles in Ordnung hat.




Konfuzius

giovedì 17 maggio 2012

Der pubertierende Stern ( dritte Teil)


Der kleine Stern blieb erst einmal wie versteinert stehen. „War es ein Traum?“ dachte er.
Plötzlich fühlte er sich sehr einsam und verspürte große Lust zu weinen. Das tat er dann auch. Er weinte bittere Tränen. Seine tausend und abertausend Augen brachen in Tränen aus und im All wurde es eine zeitlang ziemlich nass. Die dicken Tränen flossen und flossen, der kleine Stern konnte einfach nicht mehr aufhören zu weinen. Doch plötzlich hörte er eine leise Stimme, welche die Worte des Kometen wiederholte. Er konnte es nicht fassen. Er hörte und hörte immer wieder diese Stimme, die aus ihm kam. Er vergaß prompt zu weinen und fühlte sich auf einmal glücklich. Er hatte etwas in sich entdeckt, das ihn nie im Stich lassen würde: Seine innere Stimme. Ja, er war jetzt nicht mehr so einsam und fühlte sich plötzlich sehr stark. „Dann nichts wie los! „schrie der kleine Stern ganz laut und mit einem hohen Sprung stürzte er sich ins dunkle All.

Auf seiner Reise musste er immer wieder an die Worte des Kometen denken und das half ihm manche Gefahren zu vermeiden. Doch nicht alle.
Er reiste schon wieder so lange durch das All, dass er dringend eine Abwechselung nötig hatte. Der kleine Stern sehnte sich regelrecht danach. Deshalb war er freudig überrascht,  als er in der Ferne ein Funkeln sah. „Was wird das sein?“ fragte sich neugierig der kleine Stern. Je näher er kam umso stärker leuchtete das Licht. Der kleine Stern brannte vor Neugier. „Endlich habe ich etwas gefunden“, sagte er sich erfreut. Er zielte mit all seiner Kraft auf das Licht zu und plötzlich war er da.

Er befand sich vor einer ziemlich kleinen Galaxis, die so weiß wie Schnee war. Die Planeten waren mit Vulkanen besäht und aus den Kratern spuckten sie ununterbrochen weiße Staubwolken, die sich kurz danach wieder auf die Planeten und Sterne niederließen. Die weiße Farbe reflektierte das Licht der Sterne, aber es war kein warmes Licht sonder ein kaltes. Die Galaxis sah wie tiefgefroren aus.
Der kleine Stern näherte sich ihr, um alles besser zu betrachten. Er spürte, dass etwas Unheimliches im Spiel war, aber seine Neugierde war zu groß. Auf einmal stand er mitten in der Galaxis. Er blickte auf die Vulkane, die ununterbrochen diesen weißen Staub spuckten. Es herrschte eine eisige Stille. Er nahm etwas von diesem Staub, um ihn besser zu betrachten und war überrascht über die Formen der Staubkörnchen. Sie sahen wie winzige Kristalle aus, ähnlich wie Schneeflocken. Er bewunderte eine Weile die vielen schönen Muster dieses weißen Staubes. Plötzlich merkte er, dass er auch gut roch und er hielt ihn lange an seine Nase, weil der Duft so angenehm war. Ein Gefühl des Schwebens nahm von ihm Besitz und er sah auf einmal die Landschaft ganz bunt. Die Planeten sahen plötzlich wie rote dreieckige Gestalten mit einem großen schwarzen Hut aus. Dann hörte er es ganz laut lachen, aber er konnte nicht feststellen, woher das Gelächter kam. Er schwankte hin und her, und dabei sah er, dass die Dreiecke mit Hut  auf einmal flammende Augen und einen grinsenden Mund hatten. Der kleine Stern war fassungslos. Er hörte in seiner Nähe unheimliche Stimmen, die ihm zuredeten, „Rieche weiter an den Schneeflocken, probiere sie, es wird dir danach gut gehen!“
Dann hörte er wieder das Gelächter. Auf einmal spürte er eine große Angst. Trotz seiner schwindligen Verfassung konnte er noch einigermaßen klar denken und machte den Versuch sich fortzubewegen. Da wurde er direkt von einem Dreieck mit Hut festgehalten, das sagte „Du darfst nicht weggehen, wir brauchen dich, wir brauchen dein Licht, deine Energie.“ Der kleine Stern fragte mit einer ganz schwachen Stimme, „Ihr wollt mein Licht? Wie soll das gehen? Ich brauche mein Licht selber, denn ohne es wäre ich kein Stern mehr.“ Die weißen Planeten hielten ihn aber weiter fest und erzählten ihm, dass mitten in ihrer Galaxis ihr Chef wohnen würde, der ein riesiges schwarzes Loch war. Der Chef verlange täglich nach Nahrung und sie mussten sie ihm  besorgen. Er aß immer nur Sterne,  weil sie viel Licht hatten und er brauchte dieses Licht zum Weiterleben. Er hatte schon seine eigenen Sterne zu Hunderten verschluckt,  und die, die übriggeblieben waren, reichten gerade aus, um die Galaxis zu beleuchten. „Deshalb haben wir diesen weißen Staub erfunden. Er zieht durch seinen weißleuchtenden Schimmer herumstreunende Sterne an und, wenn sie ihn riechen, dann sind sie leicht zu fangen.“ „Also“, sagten sie, „wir müssen immer wieder Sterne fangen, sonst wird unser schwarzes Loch uns alle vernichten.“
Der kleine Stern geriet in Panik und schrie so laut er konnte: „Ich will nicht vom schwarzen Loch geschluckt werden!“
Er begann zu weinen und machte immer wieder den Versuch, sich von den umstehenden Planeten zu befreien. Auf einmal sahen sie wieder normal aus, weiß mit rauchenden Vulkanen. Ihr Lächeln sah aber nach wie vor grausam aus. Sie waren viele und er war nicht nur allein, sondern auch kleiner. Er fühlte sich ausgeliefert und weinte bitterlich. Tausende von Tränen stürzten aus seinen Augen, sie liefen so schnell, dass sie wie Wasserfälle aussahen. Er schluchzte so laut,  dass er gar nicht bemerkte, was um ihn herum geschah.
Als er doch vorsichtig wagte, einen Blick um sich  zu werfen, stellte er überrascht fest, dass die Planeten nicht mehr bei ihm waren. Seine Tränen waren in die Vulkane gelaufen und hatten sie teilweise gelöscht. Das hatte die Planeten so erschreckt, dass sie ihn kurz allein gelassen hatten, um sich den Vulkanen  zu widmen.
Der kleine Stern sah plötzlich die Möglichkeit zu fliehen. Er schaute schnell um sich und sagte sich dann, „Nichts wie weg !“
Noch lange nach seiner Flucht hörte er die schrecklich wütenden Schreie des schwarzen Loches, das seine Mahlzeit ins Nichts verschwinden sah.

Der kleine Stern befand sich endlich wieder auf der Reise und hatte vieles zum nachdenken. „Eigentlich,“ dachte er, „war bis jetzt nur die Begegnung mit dem Komet ein gutes Erlebnis.“  Er  fühlte sich etwas deprimiert. „Warum gibt es so wenig Gutes im All?“ dachte der kleine Stern. Er wünschte sich, endlich einer Gruppe lustiger Sterne zu begegnen und mit ihnen eine schöne Zeit zu verbringen. „Aber wo werden sie sein? Wie weit muss ich noch reisen?“ Dann dachte er an die beruhigenden Worte des Kometen und fühlte sich wieder mutig.

Seine Reise dauerte schon Jahrhunderte lang, als er endlich ein Leuchten in der Ferne  entdeckte. „Oh“, sagte er sich, „etwas Neues ist in Sicht.“
Der Lichtpunkt leuchtete immer stärker und er konnte jetzt auch die Farbe Pink erkennen. Ja, das Licht leuchtete pinkfarbig. Ganz lustig. Das hatte der kleine Stern noch nie gesehen. Das war aber nicht alles. Das Licht leuchtete sprungweise, mal nach oben, mal nach unten, mal auf die Seite, als ob es nach einem Rhythmus getanzt hätte. „Was wird das nur sein?“, fragte sich der kleine Stern. Er war jetzt noch vorsichtiger geworden. Er legte keinen Wert darauf, wieder in irgendeine Falle zu treten. Also hielt  er sich in sicheren Abstand, um alles zu beobachten. Er stellte erst einmal fest, dass es keine Galaxis war, sondern eine große Gruppe von Sternen und Planeten. Aber was für welche! Er sah sie herumspringen, tanzen und singen. Außerdem hatten sie ganz eigenartige Formen. Sie sahen nicht wie übliche Sterne und Planeten aus. Jeder von ihnen hatte ein anderes Aussehen. Niemand bemerkte den kleinen Stern, da alle mit Tanzen und Singen beschäftig waren. Sie bewegten sich alle miteinander, aber keiner berührte den Anderen. „Komisch“, dachte der kleine Stern.
Nachdem er lange zugeschaut hatte, fühlte er sich sicher genug, um sich bemerkbar zu machen. Die Musik war sehr laut und der Gesang ebenfalls. Doch schaffte er es trotzdem, sich zu verständigen und wurde freudig empfangen. Die Sterne und Planeten drängelten sich direkt um den kleinen Stern und  stellten ihm viele Fragen. Was sie besonders interessierte war das Aussehen des kleinen Sterns.  „Du siehst so altmodisch aus, wo kommst du her?“ fragten sie alle und lachten. Wie der kleine Stern sich über ihr Aussehen gewundert hatte, fanden die anderen seines zum totlachen.
Bald erfuhr er, dass jeder in dieser Gruppe sein Aussehen beliebig verändern konnte. Einer sah wie ein Halbmond aus, ein anderer wie eine Schnecke, eine Blume, ein Vogel, ein Sechseck oder eine Ziege.  So war nicht mehr zu erkennen, wer Stern oder Planet war. Der kleine Stern konnte sich diese Ansammlung von Gestalten nicht genug anschauen. Er fühlte sich aber mit ihnen wohl. Sie waren immer gut drauf und er konnte frei entscheiden, was er tun wollte.
Doch nach einiger Zeit wurde dem kleinen Stern diese Dauerparty langweilig. Ihm fehlte etwas, aber er wusste nicht genau was. Der Abschied von dieser Sternengruppe fiel ihm nicht leicht, nicht zuletzt, weil alle wissen wollten, warum er sich nicht mehr wohl fühlte. Sie waren  sehr überrascht und auch etwas beleidigt.  Doch der kleine Stern ließ sich nicht festhalten. Er hatte entschieden, weiterzugehen. Aber bevor er aufs Neue startete, sagte er zu ihnen: „Es war schön euch zu erleben, aber mir reicht es nicht, mein Aussehen zu verändern, um mich anders zu fühlen. Man bleibt der, der man ist und das ist auch gut so. Ich will herausfinden, wer ich bin und will mich nicht hinter einer Maske verstecken. Könnt ihr mich verstehen?“ - fragte der kleine Stern. Er sah erstaunte Gesichter vor sich. Sie verstanden ihn nicht. „Na gut“, sagte sich der kleine Stern, “mehr kann ich auch nicht sagen“, er grüßte alle und nahm seine Reise wieder auf.

Wie weit war der kleine Stern weitergereist? Wie lange war er unterwegs gewesen? Niemand kann es sagen. Nur eines gab den Beweis, dass die Zeit, viel Zeit vergangen war, dass der kleine Stern wieder etwas gewachsen war. Er sah nicht mehr so winzig aus und sein Leuchten hatte sich verstärkt. Doch auch seine Sehnsucht eine Bleibe zu finden war größer geworden, leider ohne Erfolg. Manchmal packte ihn die Wut und manchmal die Verzweiflung. „Warum finde ich nicht, was es mir gefällt? Wo ich mich wohl fühle? Wo ich bleiben möchte?“.

Er tobte durch das All, er musste seine Wut und seine Verzweiflung loswerden. Er begann Purzelbäume durch das All zu schlagen, glitt in Zick-Zacklinien wie eine Schlange, schrie wie ein Verrückter, lachte und weinte und hätte auch gerne mit jemand gestritten, aber mit wem?  Aber auch das Verrücktspielen ließ nach, und der kleine Stern wusste, dass er wieder auf die Suche gehen musste. Nach seinem Herumtoben fühlte er sich etwas besser, aber er war trotzdem unzufrieden und etwas unglücklich.“ Was fehlt mir? Nur eine Bleibe?“
Die Worte des Kometen kamen ihm immer wieder in den Sinn. „Höre auf deine innere Stimme“. Er achtete darauf, doch trotz aller Mühe, konnte er nichts hören; es war so, als ob seine innere Stimme verstummt wäre. „Wieso spricht sie nicht mehr?“ rätselte der kleine Stern.

Wohl oder übel, machte sich der kleine Stern wieder auf die Reise. Sein Weg führte ihn durch kosmische Nebelstürme, zu Meteoritenbanden und Sternenexplosionen, aber irgendwie schaffte er es immer wieder sich zu retten. Darüber war er sehr stolz und erkannte zunehmend, warum er diese Reise unternommen hatte.  Er erkannte, dass er selbst der Mittelpunkt seiner Reise war. Er war sein eigenes Ziel. Mit der Zeit war er ein erfahrener Stern geworden. Er fühlte sich im All nicht mehr so fremd, auch wenn er bislang nicht gerade von Freunden umringt war.

Eines Tages hörte er ganz plötzlich seine innere Stimme wieder. Vor Überraschung hielt er die Luft an. Er hörte: „Suche die Galaxis Aliverdi“. Der kleine Stern staunte nicht wenig, weil er diese Galaxis ganz vergessen hatte. Das war doch die schöne Galaxis,  von der der Komet  erzählt hatte.
Noch nie hatte der kleine Stern so begeistert seine Reise fortgesetzt . Er fühlte wie nie zu vor ein riesiges Glücksgefühl. Lange Zeit musste er sich im All durchfragen, bis er dieses Ziel erreicht hatte.

Eines Tages sah er in der Ferne einen türkis-blau schimmernden Nebel. „Ob ich sie endlich gefunden habe?“
Der kleine Stern konnte die Spannung kaum aushalten. Er näherte sich immer mehr bis er ein grün-blau funkelndes Licht erkannte. Bevor er aber in die Galaxis eintrat,  er hatte gelernt vorsichtig zu sein, blieb er noch eine Weile stehen, um sich umzusehen. Unser kleiner Stern war sehr aufgeregt. Die Schönheit dieser Galaxis war unbeschreiblich, er konnte sich vor Entzücken nicht rühren.
Das All um die Galaxis herum sah am Tag aus, wie die Morgenröte. Die grünen Planeten schmückten sich mit dem Nebelschleier und tanzten im goldenen Schimmer der Sterne. Die goldenen Sterne schauten auf die Morgenröte und schminkten sich mit der reflektierten roten Farbe. Mit einem Mal hörte man einen Planet singen. Alle lauschten regungslos. Die Melodie versetzte die gesamten Himmelskörper in eine Traumatmosphäre. Der kleine Stern war so gerührt, dass er nicht merkte, dass Freudentränen  aus seinen Augen flossen. Lange, nachdem der Gesang aufgehört hatte, stand er noch verträumt da, als er von zwei hübschen Sternen, die gerade vorbeispazierten, gesichtet wurde.
Sie riefen ihn zu sich und begrüßten ihn freundlich. Dann fragten sie danach, was er suche. Sie waren äußerst neugierig. Der kleine Stern musste alles, aber auch alles erzählen. Es dauerte nicht lange, bis der kleine Stern so zwei Freunde gefunden hatte. Zu dritt reisten sie nun durch die Galaxis. Die beiden Sterne waren sehr stolz auf ihr Zuhause und wollten dem kleinen Stern alles zeigen. Der kleine Stern platzte vor Begeisterung, noch nie hatte er so viel Schönes und so viele fröhliche Himmelskörper gesehen. Endlich hatte er gefunden, was er so lange gesucht hatte und er wünschte sich hier zu bleiben.
Hier hatte er Freunde gefunden, die ihn verstanden. Hier konnte er sich selber sein, hier fühlte er sich zu Hause..........

Und als er tausend Jahre später, einen jungen hellgrünen Planeten kennen lernte, dessen violett-grüne Augen mehr zu ihm sprachen, als viele, viele Worte, wusste er direkt, auf wen er sein Licht in die Ewigkeit ausstrahlen würde.

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Graziella Torboli
April 2002

martedì 15 maggio 2012

der pubertierende Stern (zweite Teil)


Die ganze Galaxis wurde von einem nie zuvor gesehenen Lichtfunken zusammengerufen. Das letzte Zusammentreffen. Eine große Spannung verbreitete sich unter den Gruppen, in Erwartung dieses letzten Hinweises von Mutterkern. Im All wurde es plötzlich sehr still.

Als Mutterkern sich so endgültig zurückzog und ihr Licht nur ganz schwach leuchten ließ, wurde der jungen Galaxis bewusst, dass ihr eigenes Leben begonnen hatte. Sie würden jetzt keine Hilfe mehr von Mutterkern bekommen, im Gegenteil, sie mussten sich jetzt  vor ihr in Schutz nehmen.
Für die junge Galaxis war es nicht leicht die neue Realität zu verkraften. In jeder Gruppe herrschte eine bedrückte Stimmung. Die Sterne leuchteten kaum, die Planeten sahen blass aus. Sie hatten ihre Unbeschwertheit verloren; jetzt mussten sie Verantwortung übernehmen. Das war leichter gesagt als getan. Grosse Unruhe verbreitete sich in den einzelnen Gruppen. Es wurde viel über die neue Lage diskutiert  und das führte zu vielen Auseinandersetzungen. Plötzlich waren sich viele Gruppen untereinander nicht mehr so einig, und die Unsicherheit nahm zu. Doch gab es auch einige Gruppen, die sich gar keine Sorgen machten. Sie wünschten nach wie vor  unbeschwert zu spielen und waren zu faul, um nachzudenken oder zu feige eine Entscheidung zu treffen.
In der jungen Galaxis herrschte einige Jahrtausend ziemliche Misshelligkeit. Viele Gruppen lösten sich auf, andere zankten untereinander so sehr, dass sie sich heute noch streiten, andere fanden einen Weg des Zusammenlebens. Doch es gab eine ganze Reihe von Sternen und Planeten, die sehr rebellisch waren und ihre eigene Vorstellung durchsetzen wollten. Viele sprachen darüber wegzugehen, aber wohin? Allein ins All?
Die Gruppen, die ihr Zusammenleben gefunden hatten, schauten sehr besorgt auf die vielen anderen Gruppen, oder auf einzelne Sterne und Planeten, die sich noch nicht einig geworden waren. Es war eine sehr spannende Zeit in der Galaxis.

Jedoch, ... eines Tages, ganz unerwartet und äußerst sensationell, tanzte ein kleiner Stern aus der Gruppe heraus, und kündigte seine Entscheidung an, die Galaxis zu verlassen.
Die Gruppe, die er verließ, warnte ihn vor diesen Schritt; sie malte ihm tausende von Gefahren aus, sie weinte und  flehte ihn an, zu bleiben. Der kleine Stern hatte genug von dieser Gruppe, die jede Entscheidung auf morgen verschob. Er wollte etwas erleben. Er wollte etwas Neues entdecken. Er wollte das Leben spüren. Er hatte lange genug auf die Entscheidung der Gruppe gewartet. Er war ein sehr pfiffiger kleiner Stern und seine Augen funkelten blau wie ein großes Kornblumenfeld. Er war ein sehr lustiger Stern, immer auf Streiche und Spiele aufgelegt. Jedoch, jetzt war ihm ernst geworden. In seiner Gruppe wurde es ihm auf einmal zu eng und er wünschte sich, das All zu erforschen.
Mutterstern hatte aus ihrer Mitte alles beobachtet. Sie konnte ihn nicht zurückhalten und, wenn sie ihn zu sich gerufen hätte, wäre er nicht gekommen. Er war zu stark geworden.
Der kleine Stern verabschiedete sich von seiner weinerlichen Gruppe, winkte Mutterkern von weitem zu, und hoppla,... gab sich einen Ruck und hopste aus seiner Laufbahn heraus.

Nachdem er lange genug durch die Galaxis gekreist war, merkte er auf einmal, dass es immer dunkler wurde. Er hielt inne. Er war so lange gekreist und hatte nie zurückgeschaut, doch jetzt wollte er es tun. Er schaute zurück, um zu sehen, was er hinter sich gelassen hatte.
Er sah eine Myriade von Lichtpunkten. Ganz, ganz viele Lichter, die von einem  zartrosafarbenen Nebel umgeben waren,  als ob der rosa Nebel sie hätte umarmen wollen. Dann sah er den Spiralnebel, der über der Mitte der Galaxis leuchtete, wo Mutterstern war, ganz hoch oben war er zu sehen.
Der kleine Stern konnte einen momentlang vor Entzücken nicht die  Augen davon abwenden. Er sagte leise, „Das war mein Zuhause“. Ein Hauch von Wehmut schmerzte sein Herz. Er brauchte seinen ganzen Mut, um sich von diesem Blick zu trennen. Er zwang sich nach vorne zu schauen und was sah er? Schwarz. Alles war schwarz. Kein Licht. Er sah nur Dunkelheit. Der kleine Stern stand am Rande seiner Galaxis, er war bereit zu starten und plötzlich hatte er Angst. Ja, er hatte Angst. „Nun“, dachte der kleine Stern, „Was mache ich jetzt? Will ich vielleicht wieder zurück?“ Er dachte einen Augenblick nach und sofort kam eine Antwort. „Nein, ich werde nicht zurückgehen, ich will das All erforschen!“, sagte er sich.  „Aber, welche Richtung soll ich nehmen?“. Dann dachte er, „Einfach gerade aus.“ Der kleine Stern begann  seine unendliche Reise ins All.
Das einzige Licht, dass ihm als Wegführer diente war sein eigenes und darüber war er sehr, sehr froh. Wenn er sich selbst gesehen hätte, wäre er von seiner Schönheit bestimmt sehr überrascht gewesen. Seine goldene warme Farbe und seine vielen strahlendblauen Äuglein glitzerten im schwarzen All, wie blaue Saphire und gelbe Topase.
Der kleine Stern begann eine Reise, die mehr Hoffnungen als Ziele hatte. Seine Neugier und seine Spannung waren so groß, dass er auf seinem Weg sehr aufmerksam war und immer wieder glaubte, etwas zu sehen. Aber nichts Neues war zu sehen.
Es verging so viel und noch mal so viel Zeit, ohne dass ihm etwas begegnete, dass der kleine Stern schon zu zweifeln begann. Aber er gab nicht nach. Er beklagte sich nur manchmal und sagte zu sich selbst, „Wenn ich wenigstens wüsste, wohin dieser Weg führt.“ Ab und zu machte er eine Pause, um sich auszuruhen, aber auch nur, um sich auszuruhen, denn wenn er eine Orientierung gesucht hätte, wäre es vergeblich gewesen. Das Nichts, was vor ihm stand sah wie eine schwarze Wand aus.

Als er eines Tages etwas aus der Weite wahrnahm, blieb er erst einmal stehen und dachte bei sich, „Ist da etwas oder bilde ich es mir nur wieder ein?“. Er sah nochmals hin. Tatsächlich, es war etwas zu erkennen. „Was ist das?“ fragte sich der kleine Stern. Er schaute noch einmal hin und wahrhaftig, er sah einen Gegenstand mit großer Geschwindigkeit auf ihn zurasen. Der Schreck verschlug ihm den Atem. „Um Himmelswillen“, schrie er, als er erkannte, was auf ihn zukam.
Es war ein riesiger Meteorit, der im All einen Stern oder einen Planet suchte, mit dem er zusammenprallen konnte. Die Meteoriten, das wusste der kleine Stern, waren bekannte Zerstörer. Er hatte in seiner Gruppe öfters darüber gehört, aber hatte natürlich noch nie einen gesehen, außerdem wusste er, dass eine Gruppe, dank ihrer Abwehrkraft einigermaßen gegen Meteoriten geschützt war.
Ganz erschrocken und zitternd schrie der kleine Stern, „Was soll ich machen? Was soll ich machen?“ Die Aufregung ließ ihn keinen klaren Gedanken fassen. Er stand da, wie gelähmt und sah, wie der große Meteorit immer näher auf ihn zukam. Als er so viel Angst verspürte, dass er beinahe erstickt wäre, kam ihm ein Geistesblitz, wie er sich retten konnte. Der Überlebenswille hatte seinen Geist geweckt.
Er dachte, „Der Meteorit kommt auf mich zu, weil ich so hell bin. Also, jetzt mache ich ganz schnell alle meine Augen zu, damit ich weniger strahle und dann springe ich schnell nach rechts. Ich muss schneller als ein Blitz sein. Ich muss den Meteorit überraschen und ihn reinlegen. Das ist meine einzige Chance.“ Noch schneller als schnell schloss der kleine Stern seine tausend und aber tausend Augen und sprang rasch nach rechts, genau in dem Augenblick, als der Meteorit an ihm vorbeisauste. Schwitzend und zitternd hielt er noch kurz inne, bevor er seine tausend Äuglein wieder zu öffnen wagte. Dann riskierte er einen kurzen Blick in die Richtung des Meteoriten. Er sah ihn. Er sah, wie dieser wütend  zurückschaute, jedoch keine Bedrohung mehr für den kleinen Stern war. Ihm war nämlich bekannt, dass Meteoriten sich nur vorwärts bewegen können. Also, er hatte es geschafft. Er war sehr stolz auf seine eigene Rettungsaktion, doch gleichzeitig wurde ihm bewusst, dass Gefahren keine Märchen waren, sondern Wirklichkeit. Er nahm sich fortan vor, noch besser aufzupassen.

Der kleine Stern nahm seine Reise wieder auf. Er sah zwar immer noch das Nichts vor sich, aber er hatte jetzt die Hoffnung, dass etwas in der Nähe sein konnte.
Denn die Begegnung mit dem Meteoriten bedeutete, dass irgendwo eine Explosion stattgefunden hatte.  „Was und wo wird etwas explodiert sein?“, fragte sich der kleine Stern erwartungsvoll. „Bin ich vielleicht in der Nähe einer neuen Galaxis oder auf einer Sternenbahn?“ Ihm fiel ein, mal von wandernden Sternen gehört zu haben. Es waren Sterne, die einen Weg gingen, der nur für sie bestimmt war und man durfte ihnen auf ihrem Weg weder begegnen noch ihn überkreuzen. Das Überkreuzen dieser Sternenbahnen war streng verboten und wurde auch bitter bestraft. Die Wandersterne  hätten den kleinen Stern direkt in einen Meteoritenregen befördert, aus dem er niemals lebend herausgekommen wäre, wenn sie ihn auf ihren Weg erwischt hätten. Diese  Gedanken machten ihm etwas Angst,  aber seine Zuversicht war groß. Auf einmal fühlte er sich ganz glücklich.
Der Weg kam ihm nicht mehr so lang vor, die Dunkelheit nicht mehr so schwarz. Die Freude tanzte in seiner Mitte und seine Augen blitzten dreimal so blau als sonst. Warum seine Freude so herumtanzte konnte der kleine Stern sich nicht erklären, sie war plötzlich entstanden und es war ein derartig schönes Gefühl, dass er im All schneller zu kreisen begann. Er fühlte sich auf einmal frei. So frei wie noch nie.

Wie lange er kreiste oder wieweit er vorwärts kam, weiß niemand. Im All gibt es keine Zeit und keine Entfernungen. Man geht einfach immer weiter, mal links, mal rechts, mal auch zurück. Es spielt keine Rolle. Das All ist so unendlich groß, dass man gar nicht merkt, wie weit man kommt oder wie viel Zeit man braucht. Genau so empfand es auch der kleine Stern, weil er keine blasse Ahnung hatte, wie lange und wieweit er schon gegangen war und überhaupt in welche Richtung.

Eines Tages sah er weit vor sich einen langen leuchtenden Streifen. „ Oh!“ rief er, „es gibt etwas Neues.“ Der leuchtende Streifen sah nicht bedrohlich aus, wie der Meteorit und war auch nicht so schnell,  aber trotzdem stellte er fest, dass er schneller voran kam wie er selber. Seine Neugier wurde größer und größer. Der kleine Stern wollte unbedingt wissen, wer jetzt  auf ihn zukam.
Er funkelte dem leuchtenden Streifen mit all seinen Augen Lichtsignale zu, um ihm mitzuteilen, dass er gut gesonnen war und er auf ihn zukommen sollte. Der Lichtstreifen bewegte sich auf einmal anders und zwar so, dass die Streifen im Wellentakt tanzten. Der kleine Stern fing an zu jubeln. „Er hat mich verstanden, er hat mich verstanden. Er kommt auf mich zu.“ schrie er glücklich und etwas aufgeregt.
Als die Beiden sich trafen machte der kleine Stern zum ersten Mal die Bekanntschaft mit einem Kometen. Ihm waren die Kometen bekannt, aber er hatte noch nie einen gesehen. Jetzt stand einer vor ihm. Er schaute ihn fasziniert an. Er sah wunderschön aus, eingehüllt in seinem langen, leuchtenden Schweif.
Der Komet zeigte sich auch sehr erfreut, so einem netten Stern begegnet zu sein. Allerdings wunderte er sich, dass so ein junger Stern  allein im All reiste. Er äußerte seine Gedanken und fragte: „Ist es nicht zu gefährlich für dich, allein im All zu sein?“ „Das habe ich schon bemerkt“, sagte der kleine Stern. „Ich bin einem riesigen Meteoriten begegnet und habe es allein geschafft ihm auszuweichen.“ Der Komet bewunderte den kleinen Stern und forderte ihn auf, die ganze Geschichte zu erzählen. Er mochte persönlich auch keine Meteoriten. Nachdem der kleine Stern seine aufregende Geschichte ausführlich erzählt hatte, wünschte er sich so viel wie möglich vom Komet zu hören, denn er erwartete von ihm viel, viel Spannendes.
Der kleine Stern hörte lange und gerne zu, aber er musste immer wieder den Komet anschauen. Das lenkte ihn ab, aber der Komet sah einfach zu schön aus. Er stand vor ihm, eingehüllt in seinen leuchtenden Schweif, der so glitzerte, als ob er mit tausenden Brillianten und Perlen bestickt worden wäre und um ihn herum schwebte ein grün-rosafarbener Nebelschleier, der  wie Perlmutt schimmerte. Er sah wie eine wunderschöne Fee aus. Der kleine Stern sah ihn wie verzaubert an und  konnte  nicht mehr aufmerksam zuhören. Der Komet schaute ihn mit seinen großen strahlend violett-blauen Augen an und konnte nicht verstehen, warum der kleine Stern ihn plötzlich so verträumt  anstarrte. „Sind meine Erzählungen langweilig?“ fragte er ihn. Der kleine Stern wachte plötzlich, wie aus einem tiefen Traum auf. Oh Himmel, war ihm das peinlich. „Nein, nein,“ sagte er vehement , „Ich will noch mehr hören, du sollst alles erzählen, was du erlebt hast.“
Der Komet musste über diesen plötzlichen Ausbruch herzlich lachen, weil er den kleinen Stern sehr drollig fand. „In Ordnung“, sagte er, „was willst du noch alles wissen?“ „Alles!“, antwortete wissbegierig der kleine Stern. Er erfuhr, wie viel es im All noch zu sehen gab. Man musste nur lange genug reisen und nicht müde werden oder die Hoffnung verlieren.
Der Komet erzählte von Galaxien, die nur von Sternen bewohnt waren und keinen Planet kannten. Aus einer dieser Galaxien war er ausgerissen, weil es dort vor lauter Langeweile nur noch Streit gab. Die Sterne explodierten einer nach dem anderen aus Wut oder Zorn. Es war nicht mehr auszuhalten und zudem auch noch gefährlich. Der Komet warnte den kleinen Stern, sich nicht in der Nähe dieser Galaxien  aufzuhalten, da sehr wahrscheinlich die Meteoriten aus den Explosionen dieser streitsüchtigen Sterne entstanden seien.
Dann erfuhr der kleine Stern von der schönsten Galaxis, der Galaxis, die der Komet am Schönsten fand. Der Komet erzählte, dass er ihr zufällig begegnet war und  sie sei unbeschreiblich schön.  Es war eine Galaxis aus grünen Planeten und goldenen Sternen. Die grüne Farbe der Planeten war nicht einheitlich, sondern es waren alle Grüntöne des Universums in ihnen vorhanden. Die Sterne strahlten ihr goldenes warmes Licht  auf die vielfältigen Grüntöne der Planeten, wodurch  eine blau-türkis-goldene schimmernde Farbe entstand, die in die ganze Galaxis  hineinreflektiert wurde. Man konnte sie schon von weitem sehen. Diese Galaxis hieß Aliverdi. Es war eine kleine Galaxis und sie hatte keinen Mutterkern. Diese letzte Nachricht verschlug dem kleinen Stern die Worte. Er blickte ungläubig auf den Komet und fragte noch einmal, „Die Galaxis Aliverdi hat keinen Mutterkern?“ Der Komet, der sich darüber informiert  hatte, erklärte, dass diese  Galaxis ein Treffpunkt für ausgerissene Sterne und Planeten war. „Ja“ sagte der Komet, „Stell dir vor, es sind alles Ausreißer. Sie haben sich selbständig gemacht, untereinander organisiert und eine eigene Galaxis aufgebaut. Sie sind alle etwas rebellisch und provozieren einander gern, aber sie sind nie langweilig. Sie sind sehr kreativ und denken sich immer etwas Neues aus. Nichts in dieser Galaxis bleibt länger als tausend Jahre gleich. Manchmal ändern sich Dinge sogar schneller. Da musste der kleine Stern noch eine brennende Frage loswerden: „Wie sind die Gruppen in der Galaxis Aliverdi aufgeteilt?“ „Gruppen?“ fragte der Komet. „Da gibt es keine Gruppen. Jeder Planet hat seinen Stern. Nur ab und zu kann es vorkommen, dass ein Stern zwei Planeten bestrahlen muss, aber das regelt sich schnell, weil immer wieder ein neuer Ausreißer kommt.“  Man sagt, dass diese Galaxis sich dank der besonderen Ausstrahlung ihrer Bewohner so genial entwickelt hat. Ich hätte gerne selbst da gewohnt, aber nachdem ich mich entschieden habe, ein Komet zu sein, bin ich für eine Galaxis nicht geeignet, weil ich zu schnell bin und viel Platz brauche, außerdem liebe ich es unterwegs zu sein.“
Der kleine Stern hatte sehr aufmerksam zugehört. Dann sagte der Komet noch,  „Du solltest zu dieser Galaxis reisen, ich glaube sie ist das Richtige für dich, obwohl bis dahin noch ein sehr, sehr langer Weg zurückzulegen ist.“
Der kleine Stern fragte, „Meinst du, dass sie mich aufnehmen werden?“ „Es kommt auf dich an“, antwortete der Komet, aber mehr sagte er nicht.  Auch auf das Drängen und den Ansturm der vielen Fragen,  die der kleine Stern stellte, sagte der Komet nichts mehr. Er benahm sich plötzlich sehr geheimnisvoll.
Dann fuhr er mit seinen Erzählungen fort. Er erzählte von der traurigsten Galaxis, die er je gesehen hatte. Die traurigste Galaxis wurde auch die Lichtlose genannt. Sie bestand nämlich nur aus Planeten. Alle kreisten im Dunkeln herum und warteten, dass von irgendwo ein Licht auf sie zukommen würde. Diese Planeten waren ununterbrochen am Jammern, warfen sich gegenseitig vor, unfähig zu sein und erwarteten von den Anderen, was sie selber nicht tun wollten, nämlich auf Sternensuche gehen. Der Komet sagte dazu, „diese Galaxis war nicht nur die traurigste sondern auch die dümmste Galaxis, die ich je gesehen habe. Ich warne dich davor, kleiner Stern. Gehe nicht in ihre Nähe, denn du bist noch zu unerfahren und würdest von dem Gejammere so verwirrt werden,  dass du die Gefahr nicht erkennen würdest oder nur dann, wenn es zu spät wäre. Sie würden dein ganzes Licht aussaugen. So gierig und dumm sind sie. Ich bin gut davon gekommen, weil ich sehr schnell bin. Ich konnte es sogar wagen, mehrere Male um diese Galaxis herumzukreisen und alles zu beobachten, ohne gefangen zu werden.“
Der kleine Stern hörte erstaunt zu und wünschte sich immer bei dem Komet  bleiben zu dürfen.
Doch der Komet wollte seine Reise wieder fortsetzen. Bevor er sich aber auf den Weg machte, brach er plötzlich in Lachen aus und fragte den kleinen Stern, „Wo kommst du überhaupt her? Wo willst du überhaupt hin? Vor lauter Freude, dir begegnet zu sein, habe ich ganz vergessen dich das zu fragen“.  Der kleine Stern wurde etwas verlegen, weil er sich schämte, so ziellos zu sein. Aber er war ein ehrlicher Stern und deshalb beichtete er dem Komet, dass er aus seiner Galaxis gegen den Willen der Anderen ausgerissen war und jetzt eine Bleibe suchte. Der Komet hörte der Erzählung des kleinen Sterns sehr aufmerksam zu.
Seine großen Augen strahlten Liebe und Freude für den kleinen Stern aus und, bevor er sich entgültig auf die Reise machte, sagte er noch zu ihm, „Lieber kleiner Stern, einige meiner Erfahrungen habe ich dir mitgeteilt, aber viele und noch viel mehr als viele, wirst du auf deinem Weg machen müssen. Nur eins darfst du niemals außer Acht lassen, deine innere Stimme. Diese Stimme bist du selber und sie spricht nur für dich. Du solltest sie nie überhören. Gleich wo du bist, gleich welche Ziele du dir vornimmst, diese Stimme wird dir deine Wahrheit sagen. Wenn du ihr wirklich zuhörst, wird sie dein Wegweiser werden. Das wünsche ich dir.“
Danach hob sich der Komet, schüttelte sorgfältig seinen langen glitzernden Schweif und startete mit einem lauten Freudenschrei ins All..........